Jim Dine: l’originalità dell’arte tra pittura e oggetti

Poco prima della pandemia Roma viene tappezzata da manifesti gialli per introdurre la grande retrospettiva su Jim Dine del Palazzo delle Esposizioni (di cui avevamo già parlato durante il lockdown con @condizioneassange). Putney Winter Heart (Crazy Leon), 1971-1972 diventa il manifesto della mostra: un acrilico su tela e oggetti. La rassegna, organizzata da Azienda Speciale Palaexpo e curata da Daniela Lancioni in collaborazione con l’artista, porta nelle sale 80 opere provenienti da collezioni pubbliche, private, europee e americane, con le quali ripercorriamo il lavoro di quest’ultimo, dal 1959 al 2018.

L’artista senza etichette
Ci accoglie nella prima sala un lungo pannello in cui sono segnate le tappe più importanti della vita di Jim Dine. Nato nel 1935 a Cincinnati, nell’ Ohio, l’artista si trasferisce a New York e dà il via alla sua carriera grazie ai famosi happening, con ai quali diventa subito influente tra i personaggi del momento. Il periodo delle performance finisce quasi subito per vederlo dedicarsi alla pittura e alla scultura. In questi anni l’artista crea opere con utensili da lavoro e abiti, seguendo la cultura contemporanea dell’epoca.
Nel 1964 partecipa alla Biennale di Venezia nel Padiglione americano, legandosi alla Pop Art. Jim Dine non ama però le etichette e lo dimostra sia con l’originalità e la dinamicità dei suoi lavori, sia attraverso dichiarazioni molto chiare: «I’m not a pop artist. For me pop never was…pop is concerned with exteriors. I’m concerned with interiors. When I use objects, I see them as a vocabulary of feelings. I can spend a lot of time with objects, and they leave me as satisfied as a good meal. I don’t think pop artists feel that way». L’artista americano è sempre stato difficile da catalogare, sicuramente per suo volere e per il rifiuto di identificarsi in una qualche corrente artistica che forse avrebbe sminuito la forza e la libertà della sua arte.

Disposizione cronologica: vantaggio o svantaggio?
I pannelli continuano su tutta la parete della sala, una scelta sicuramente mirata e volta a sottolineare la successione temporale ordinata ripresa nel percorso, ma che – per i non addetti ai lavori – potrebbe a tratti risultare difficile da seguire e leggermente prolissa. Dopo una lunga lettura, le prime opere che si svelano ai visitatori sono dei dipinti di teste, piccoli ritratti ad olio e acquerello realizzati da un giovane Jim Dine, per proseguire poi con brevi video di immagini dei primi happening degli anni Cinquanta. Ma è solo dalla seconda sala in poi che incontriamo i dipinti manifesto della sua arte, opere contaminate da oggetti quotidiani come asce, vanghe, martelli, tenaglie. Ecco che le tinte sgargianti della tavolozza si uniscono alla sua inclinazione per la scultura, affiancando alle tele utensili ordinari, colorati e lucidati, come si vede in A Thin Kindergarten Picture (1974).
Passiamo poi alle sculture in alluminio: una policromia accecante di tinte vivaci in cui regna centrale The garden of Eden (2003), realizzata dall’unione di strumenti di lavoro diversi tra loro, tra cui cacciaviti, forchettoni, raschietti, chiavi inglesi e tanti altri. Verso la fine del percorso espositivo incontriamo ancora una sala interamente dedicata ai cuori del 1970-1971: Straw Heart (1967) occupa il centro, un grande cuore di paglia disposto su un fianco. L’ultimo ambiente è invece dedicato alla figura di Pinocchio, tante sculture in legno di diverse dimensioni ispirate al personaggio della celebre fiaba, che sembrano prendere vita, metafora dell’arte che riesce a rendere viva la materia. L’omaggio a Pinocchio segna la fine di un percorso classico, lineare, che rispetta meticolosamente le tappe della carriera artistica – invece totalmente irregolare e originale – di Dine.