Tolkien creò Frodo Baggins: l’eterno antagonista di sé stesso

J.R.R. Tolkien moriva il 2 settembre 1973 lasciandoci un’importante eredità. La Compagnia dell’Anello è stato pubblicato per la prima volta nel 1954 e iniziato in pieno conflitto mondiale. È naturale e scontato pensare che Tolkien si sia lasciato ispirare dalla guerra imperante, eppure, nella prefazione alla seconda edizione inglese de Il Signore degli Anelli, lo nega con vigore: «Il capitolo cruciale, L’ombra del passato, è una delle parti più vecchie del racconto. È stato scritto molto prima che i presagi del 1939 si mutassero in minacce di un disastro inevitabile, e da quel punto la storia si sarebbe sviluppata secondo le stesse linee anche se quel disastro fosse stato evitato. […]».
Mentre Lo Hobbit è un volume di pregio tra gli scaffali della narrativa per ragazzi, forte di quella “semplicità” che lo rende godibile a tutti, Il Signore degli Anelli, pubblicato diciotto anni dopo, date le sue mille sfaccettature, si rivela una riuscita evoluzione stilistica.
Qui oggi vogliamo riflettere solo su Frodo Baggins, il Portatore dell’Anello, colui che fin dall’inizio del suo percorso si rivela un po’ l’antagonista di sé stesso o di ciò che dovrebbe e vorrebbe disperatamente essere. Elémire Zolla, nell’introduzione all’edizione Bompiani, descrive con tale generosa puntualità il popolo Hobbit: «gli Hobbits sono amabili, buffi, profondamente seri. […]Sono quasi deliberatamente svagati, dediti quasi per impuntature a privatissime frivolezze quando si trovano sull’orlo della catastrofe, […] pronti a sacrifici e ardimenti e dure resistenze, purché sia dato di affrontarli con aria distratta e lievemente comica». Questa è una involontaria dichiarazione del fallimento personale di Frodo nel compimento della sua missione. Il nostro Hobbit quell’Anello l’ha infine gettato nel fuoco del Monte Fato, è vero, ma palesamente contro la sua volontà: si può dire che sia stato un fortunato incidente. Se al fianco di Frodo non vi fossero stati compagni dalla personalità ferrea e, allo stesso tempo, «svagata», l’Anello sarebbe stato rubato molte molte pagine prima della fine.
Tralasciamo Aragorn, Gandalf, Legolas, tutti grandi eroi della saga, e paragoniamo Frodo ai suoi pari: Merry, Pipino e Sam possiedono tutte quelle caratteristiche tipiche degli Hobbit – frivolezza, comicità, spirito gaio – che in Frodo sono appena accennate. Affrontare le difficoltà con «aria distratta e lievemente comica» è una grande lezione di vita e ciò che ha permesso ai Mezzuomini di contribuire a salvare la Terra di Mezzo.
A un certo punto del loro viaggio, Marry, Pipino e Sam, partiti come semplici accompagnatori di Frodo, decidono di essere padroni del proprio destino nonché personaggi attivi e decisivi nella guerra contro Mordor. Il Signore degli Anelli si rivela un vero e proprio romanzo di formazione per i tre Hobbit, i quali tornano alla Contea più consapevoli di sé stessi e pronti a fare ciò che è necessario per riprendersi la propria casa. In Percorrendo la Contea – uno dei capitoli più significativi del libro di cui si sente una gran mancanza nell’adattamento di Peter Jackson – Merry e Pipino si rivelano leader indiscussi della Contea, mentre Frodo continua a percorrere la strada dell’inerzia e di un eccessivo buonismo.
Appena nel secondo capitolo, durante un raro impeto, Frodo maledice Bilbo per non aver ucciso Gollum quando ne ebbe la possibilità e Gandalf lo ammonisce così:
«Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare e a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi era stato un atto di Pietà».
Questo rimprovero, unito all’indole profondamente buona di Frodo, ha segnato l’atteggiamento che avrebbe avuto più tardi nei confronti di Gollum. Eppure è così difficile, conoscendo Frodo, separare la sua sincera pietà da un profondo e intrinseco egoismo: non impiega molto Gollum a diventare il riflesso di Frodo; e Frodo, posto costantemente di fronte a questo specchio dell’anima, si relaziona con Gollum immaginando un futuro se stesso reietto.
Dalla partenza della Compagnia dell’Anello al ritorno verso casa, lo Hobbit percorre un viaggio introspettivo: a testa china e sguardo fisso sulla strada accidentata che conduce verso Est, non riesce ad andare oltre la lotta interiore che, con profonda consapevolezza, perde tristemente:
«Ricordi le parole di Gandalf: – dice Frodo a Sam – “Persino Gollum potrebbe avere ancora qualcosa da fare”? Se non fosse stato per lui, Sam, non avrei distrutto l’Anello. La Missione sarebbe stata vana, proprio alla fine. Quindi, perdoniamolo! La Missione è compiuta, e tutto è passato. Sono felice che tu sia qui con me. Qui, alla fine di ogni cosa, Sam.»
«Quindi, perdoniamolo!» Perfino questo ultimo gesto magnanimo nei confronti di Gollum ormai morto è una disperata richiesta di perdono per non aver saputo compiere una missione che era destinato a fallire.