Cecilia Mangini: lo sguardo indagatore sulle realtà dimenticate
Ero la primogenita e sono nata femmina, ma il padre meridionale vuole il primo figlio maschio! Veramente tutto quello che ho fatto nella vita è stato per cancellare questo senso di non essere bene accetta
(Cecilia Mangini)
Cecilia Mangini è stata una regista, sceneggiatrice e fotografa, ma è anzitutto considerata la prima documentarista donna in Italia.
Negli anni ’50-’60 in Italia c’era molta arretratezza culturale dal punto di vista dell’emancipazione femminile, perché la donna si trovava in un stato ancora subalterno a quello dell’uomo.
Riuscire a ritagliarsi un ruolo considerato maschile significava rompere gli schemi e collocarsi dalla parte opposta del limite.
Secondo la Mangini in quell’epoca “le donne dovevano essere sottomesse, madri di famiglia, destinate a una castità anche nel matrimonio. […] Che le donne facessero cinema, praticamente, almeno in Italia, era impossibile. E quindi ho detto: Sì, va bene, lo faccio! Ci sono riuscita perché ho pensato che se mi comportavo da uomo forse ci sarei arrivata”.
Comportarsi come un uomo voleva dire non truccarsi, portare i pantaloni e soprattutto non fare domande, perché le donne dovevano tacere e non avere opinioni.
Cecilia Mangini, invece, di opinioni ne aveva tante e ne discuteva sempre, conquistandosi piano piano la sua libertà.
Ciò che i suoi lavori ci restituiscono, fotografie e documentari, è un grande senso di giustizia. Giustizia nei confronti di chi si trova nella porzione più bassa della società e vive invisibile agli occhi dei più.
Si tratta dei ragazzi di periferia, del Mezzogiorno, delle donne che lavorano, dei ribelli.
Figure, persone che stanno a cuore alla sensibilità della regista, la quale non si sottrae alla loro descrizione ma anzi ne esalta i pensieri.
Mangini rompe i tabù del suo tempo scattando foto per strada dove “l’umanità vive, si dibatte, si diverte, soffre” e poco dopo inizia la sua carriera dedicandosi ai documentari.
Ignoti alla città (1958)
“Oltre la città nasce una nuova città, nascono nuove leggi dove la legge è nemica, nasce nuova dignità dove non c’è più dignità, nascono gerarchie e convenzioni spietate nelle distese dei lotti, nelle zone sconfinate dove credi finisca la città, che ricomincia invece, ricomincia nemica per migliaia di volte, in polverosi labirinti, in fronti di case che coprono interi orizzonti”.
Queste sono le parole della voce narrante di Ignoti alla città, il primo documentario della Mangini con il commento di Pier Paolo Pasolini.
Legandosi a Pasolini in un sodalizio artistico, Mangini si ispira al romanzo Ragazzi di vita per questa sua pellicola che racconta l’emarginazione sociale dei ragazzi di borgata.
Il colore vivace delle immagini contrasta con la desolazione della periferia, grigia e priva di futuro. Dagli interni si passa, in modo fluido, a mostrare gli ampi spazi e le discariche in cui i ragazzi trascorrono le loro giornate, sempre secondo uno schema dall’armonia cromatica.
Se a livello visivo notiamo i giovani nelle borgate romane barcamenarsi tra i lavoretti saltuari e i furti, lo sport e le sigarette condivise; la voce fuori campo (sul testo scritto da Pasolini) commenta le vicende in una attenta e delicata analisi dialettica.
I giovani ritratti sono indolenti ma hanno una vitalità naturale (fatta di lotte nel fango, bagni nel fiume, giochi per le strade) che però viene tarpata da un contesto sciagurato.
Ignoti alla città rivoluziona il modo di raccontare tipico dei documentari di quegli anni, impiegando un’autenticità leggiadra, non retorica. Mangini riesce a coniugare indagine formale e dimensione ideologica, prendendo spunto dal cinema sovietico.
La canta delle Marane (1961)
Il grido iniziale di un bambino apre la scena, è ipnotizzante e frastornante, quasi fosse il canto di una sirena: è la canta delle marane.
I fanciulli si tuffano nella marana, ossia un corsa d’acqua tipico del territorio laziale, e giocano, ridono, scherzano, si picchiano.
Sono tanti e vitali, tutti nerboruti, sono il simbolo della genuinità, quella più terrigna.
Non hanno nulla, se non la loro energia, che vaga in mezzo alla natura e pervade tutto di purezza.
Dal punto di vista contenutistico tutto è programmato, anche il finale quando i ragazzi insultano lo spettatore, d’altronde si comportano in maniera spontanea, come si comporrebbero senza telecamera.
La voce narrante impersona quella di un ragazzo della marana ormai cresciuto, che parla di sé e dei suoi amici, della loro vita fanciullesca. Ricorda con nostalgia quel tempo in cui la vita era difficile, ma insieme ai suoi amici godeva di momenti spensierati.
Il finale è molto amaro ma parla di libertà.
“Il mondo da un bel pezzo l’ha mollati in marana, se li ricorda solo pe’ curiosità, qualche volta pe’ paura, così loro se ne fregano del mondo com’è oggi, impuniti, liberi, testardi. Gli affari loro hanno imparato a fasseli da soli, soli e inguattati tra le marane e l’erba, per questo devono esservi nemici.”
Stendalì – Suonano ancora (1960)
“E tu cuore arso piangi, urla sempre come un bue selvaggio che al mondo hai perduto ogni luce.”
Stendalì, commentato dalle parole di Pasolini come i precedenti, descrive il pianto di commemorazione funebre e racconta il dolore di una madre che perde il figlio.
Un ragazzo di 16 anni morto giace in una bara, mentre attorno le donne della comunità cantano una canzone straziante, in lingua grica.
Siamo in Puglia e qui “piangere il morto”, come si suol dire, significa accogliere un po’ di sofferenza altrui e farla propria, alleviando il peso con una cantilena cadenzata.
Cantano le donne e si disperano. Scuotono i fazzoletti bianchi che tengono saldi tra le mani nodose. E poi saltano. Le voci sono sempre più intense. Il canto diventa incalzante. La voce femminile narrante (interpreta la voce della madre) grida e si dispera. Si tratta di un rito funebre. Sembra qualcosa di primordiale.
Siamo attratti e annichiliti al tempo stesso di fronte a questo evento, che possiamo fruire solo attraverso uno schermo, immaginiamo il dolore di una perdita così prematura, immaginiamo un ragazzo vivace che non potrà più conoscere il mondo.
“Chi ti preparerà il vestito quando verrà la domenica? Nessuno di tutti che qui stanno.
Tu resterai solo.
Chi ti laverà la camicia, figlio mio? Te la laverà la lapide e la terra.
E chi te la potrà stirare? Te la stirerà la lapide e la terra.
Chi ti sveglierà, figlio mio, quando il giorno sarà alto? Là sotto è sempre un sogno, sempre notte buia.”
All’armi siam fascisti (1962)
Sul versante politico Cecilia Mangini si dedica ad un documentario sul fascismo, insieme a Lino del Fra e Lino Miccichè.
Una critica sociale che narra la genesi e le propaggini del movimento fascista, composta da un’accurata selezione di filmati d’epoca che mostra le immagini più simboliche del decennio.
Mangini era un’intellettuale di sinistra e affermava: “C’è voluto il disastro della guerra per diventare antimonarchica e antifascista, e poi, aiutata dai film dei nostri grandissimi registi, di de sica e di Rossellini, io Sono diventata neorealista e dunque anche di sinistra”.
Essere donne (1965)
Scorrono immagini di donne bellissime, sono le copertine delle riviste più patinate degli anni ’60, poi iniziano a susseguirsi spezzoni di video che riprendono alcune donne lavoratrici intente a svolgere il proprio mestiere.
Le loro voci in sottofondo descrivono ciò di cui si occupano, per quanto tempo al giorno e quale salario percepiscono. Sono donne sfruttate, ancor più degli uomini di quell’epoca, la loro colpa è solo essere nate donne e quindi essere considerate inferiori.
Si tratta di donne che lavorano in fabbriche automobilistiche, filano il cotone oppure sono raccoglitrici di olive. Operaie o artigiane il loro destino è lo stesso.
Il mito del benessere che si evince attraverso le immagini iniziali delle protagoniste di riviste e di cartelloni pubblicitari nasconde le contraddizioni della società.
La voce fuori campo sentenzia: “Chi può riconoscersi in queste immagini? Non i 6 milioni di donne che in Italia lavorano nella produzione, non i milioni di donne che restano a casa, legate alla fatica domestica”.
Ed è proprio così. Questa realtà menzognera e contraddittoria viene delineata in maniera magistrale dalle riprese della regista, la quale riesce a cogliere con la sua sapiente tecnica documentaristica la fatica e la rassegnazione negli occhi delle donne riprese.
Tommaso (1965)
Questo cortometraggio realizzato per evidenziare il lato oscuro del boom economico si accompagna ad un altro corto intitolato Brindisi ’65.
Tommaso è un ragazzo di vent’anni che desidera essere assunto dalla Monteshell, industria petrolchimica insediatasi a Brindisi, per soddisfare il suo sogno di benessere.
Infatti dice: “Gli altri italiani del Petrolchimico hanno tutto: lavatrici, mobili, tutto hanno, un corridoio, un gabinetto, una stanza da letto, hanno delle macchine anche. Comprano qualsiasi cosa, tutto quello che serve per la casa, tutto!”.
Mentre sfreccia sulla sua motoretta sembra assumere le sembianze di Ettore, il protagonista di Mamma Roma, quando percorre in moto le strade di Roma insieme alla madre.
Entrambi sono pervasi da una felicità momentanea e ingenua, sognano una vita migliore, fatta di beni materiali ma anche di amore.
Tommaso è una storia vera. Tommaso troverà soltanto smentite sul suo cammino, la realtà non è così rosea come la immagina, ma la sua innocenza non gli permetterà di comprenderlo.
La voce narrante è realista: “La priorità di scelta spetta al monopolio che conta su di lui e su migliaia di suoi simili, indifesi, sottoccupati, braccianti”.
Tutto è preso dal mondo reale e restituito al pubblico, ma il bianco e nero è una scelta stilistica della Mangini, secondo la quale “il bianco e nero ha una utilizzazione che il colore raramente riesce a raggiungere, […] il bianco e nero resta bello, pulito, netto”.
La briglia sul collo (1974)
Siamo arrivati all’ultimo documentario dell’autrice, un corto che segue la quotidianità di Fabio Spada, un bambino particolare e pieno di energie.
Fabio è il protagonista, ma attraverso di lui possiamo conoscere chi gli sta attorno: il padre, la madre, il direttore didattico, la psicologa della scuola, la vicina di casa.
Lui vive nella borgata di San Basilio a Roma, con la famiglia di umile estrazione, e viene definito dalla scuola un disadattato perché è ribelle, iperattivo e non rispetta le regole.
Secondo la psicologa il bimbo deve essere riadattato per la società, perché altrimenti sarà costretto all’isolamento. Ma perché deve essere isolato? La diversità spaventa?
Fabio spernacchia e non si rende conto della preoccupazione che aleggia intorno a lui, Fabio forse rimarrà isolato, a causa dei limiti imposti dalla società.
La briglia sul collo è proprio la metafora di una realtà ancora troppo gretta e ristretta che tenta di porre un freno a ciò che ritiene fuori dalla normalità, che è eccezionale e raro.
Con la visione dei suoi lavori possiamo comprendere il segno indelebile che la regista ha lasciato nel mondo del cinema ma anche nella sociologia moderna.
Cecilia Mangini è stata una donna che ha osato e che ha saputo raccontare gli ultimi.
Cecilia Mangini: lo sguardo indagatore sulle realtà dimenticate