Il grande caldo: Roma d’estate quando hai vent’anni e sei indolente

Avevamo più o meno vent’anni. Quella che doveva essere l’età più bella della vita per noi era in gran parte fatta di noia, pigrizia, indifferenza. La città in cui vivevamo continuava il suo lunghissimo declino e noi, prematuramente, con lei.
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Il coraggio dell’autoproduzione
Il grande caldo è un lungometraggio indipendente girato da una troupe di coraggiosi ventenni a Roma nell’estate del 2013 ma ultimato e uscito solo nel maggio di quest’anno.
Il film, di 55 minuti, è stato autoprodotto e realizzato con un low budget di 850 euro da Marcello Enea Newman (ex Marcello e il mio amico Tommaso), Daniele Tinti, stand-up comedian e podcaster (Comedy Central, Tintoria), Luigi Caggiano e Dan Bensadoun (membro dei Replicant, Bomba Dischi).
Si tratta di un mockumentary che mette in scena uno spaccato di vita scanzonato di un gruppo di giovani romani, alle prese con le insofferenze generazionali e l’apatia per una realtà che non è all’altezza delle aspettative.
Questi ragazzi si sono inseriti in modo irriverente sulla scena artistica romana, sfruttando le proprie capacità di musicisti, artisti e mattatori.
Passano il tempo bevendo Peroni e dicendo volgarità, nei bar della città oppure a casa di qualcuno di loro.
Una loro amica di nome Ludovica che studia cinema a Parigi, torna a Roma per l’estate e li trascina nella realizzazione di un corto che li spingerà a distaccarsi dalle proprie abitudini e a fare nuove esperienze.

“L’eterosessualità è veramente di una banalità, roba da borghesi, che schifo.”
Nouvelle Vague
La carrellata iniziale sui volti dei ragazzi accaldati e in silenzio ci fa penetrare appieno nel loro umore apatico e stanco, ma comunque pieno di vitalità.
Roma d’estate, si sa, non è il posto perfetto per trascorrere le vacanze: fa caldissimo, partono quasi tutti e molti locali sono in ferie.
I protagonisti, però, continuano a vivere le proprie esistenze e in maniera irriverente ma amara fanno discorsi sul sesso, sulle ragazze, sulla loro voglia inespressa di amare.
Le conversazioni, inframezzate anche da qualche colorita blasfemia, non vertono solo sulle pulsione sessuali ma anche sulla qualità della propria vita, sul futuro, sulle incertezze.
Ed è a questo punto, quando la camera entra nei discorsi dei giovani e segue le loro movenze, le loro smorfie, che possiamo notare l’influenza autarchica di Nanni Moretti.
“So’ bianco, cattolico, borghese, c’ho pure la vespa e invece niente, porco giuda! I miei genitori si sono fatti un culo così per darmi la vita migliore del mondo e io che cazzo faccio? Niente!” esplode durante una serata uno dei protagonisti de Il grande caldo.
Nelle parole sconclusionate ma in realtà ragionate, nell’indolenza giovanile, nel confronto con la generazioni degli adulti, nei pensieri dal residuo borghese ritroviamo i tratti tipici di Ecce bombo del sarcastico Moretti. Ma soprattutto nelle ambientazioni: le case dei personaggi, i bar, il mare, i parchi.
Sono amici disillusi che tentano di analizzarsi ma finiscono per non concludere nulla, perdendosi in inutili chiacchiere.
Il grande caldo riprende anche Il raggio verde di Eric Rohmer nel modo di descrivere i mesi estivi come grandi punti interrogativi, come momenti in cui prendere decisioni risulta sempre inopportuno ma necessario, perché è proprio d’estate che accadono gli eventi più straordinari.
I ragazzi, che nel 2013 avevano le idee chiare ma soprattutto erano molto sfrontati, hanno confezionato un lungometraggio che sa di Nouvelle Vague, di freschezza ed estremo realismo, di filosofia e al contempo di goliardica disinvoltura.

Romanità e “Tribolo”
Il film è scandito dai giorni dell’estate, come fosse un diario, svogliato e a tratti razionale di una gioventù che non crede nel futuro, o meglio ci crede ma non sa come maneggiarlo.
Una storia comune che sdogana il parlare di frivolezze, l’uso del dialetto e le imprecazioni.
Uno spaccato di vita realistico e autentico che mostra la depressione del ceto medio prima dell’avvento sfrenato dei social.
Scene di folklore, come quella del Mago Guarda (artista di strada che si esibisce per le vie di Trastevere) che si toglie il parrucchino, si alternano a scene quotidiane più colorite, ad esempio quando un ragazzo per caso incontra il gruppo di amici e parla loro di un nuovo gioco di carte che si chiama “Tribolo”.
“Tipo stai a giocà a scopa, invece de dì ‘scopa’ fai ‘tribolo’, bruci le carte dell’avversario e hai vinto perché hai detto tribolo al posto di ‘scopa’ o ‘briscola’. La presa a male è che oltre che l’avversario se pija a male, te devi ripagà il mazzo, però hai vinto e quindi è un po’ un tribolo. Devi sceglie tipo esse umiliato e non pagà le carte oppure pagà le carte e avé vinto”.
Queste le parole senza senso del ragazzo che irrompe sulla scena creando grande ilarità e rompendo ogni dinamica cinematografica, portando lo spettatore all’interno di una vicenda di quotidiana surrealtà.
Per riprendere il filone morettiano il film si poteva chiamare “Tribolo”, come “Ecce bombo” che prende il titolo dall’urlo di un rigattiere che rompe il silenzio dell’alba sul litorale di Ostia.
Il finale rimane aperto: i ragazzi camminano in silenzio dopo la serata e si dirigono verso il Colosseo quadrato, non sappiamo cosa sarà di loro. Riusciranno a realizzare i propri sogni, rimarranno indolenti e svogliati oppure si faranno trasportare dal flusso della vita?
Ciò che interessava ai registi era proprio raccontare e celebrare l’autentica profondità della noia, dell’indolenza, del sentirsi persi.
Nel farlo i ragazzi hanno dato valore al dialetto romano, utilizzandolo come linguaggio costante in tutto il film, e documentato i luoghi della movida romana come il Bar San Callisto a Trastevere, il Bar dei Brutti a San Lorenzo, l’Eur e Capocotta ad Ostia.
Una romanità che ci ricorda molto i The Pills, i quali nella loro webserie affrontavano in maniera ironica temi comuni ai giovani delle periferie romane.
Ora che Marcello e Daniele sono cresciuti, avranno la voglia e l’audacia di dare vita ad un lungometraggio sui trentenni romani?
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