Matrix Resurrections, un film difficile

Tre parti ben distinte
Il film si sviluppa in tre parti ben distinte sia per ambientazione che, purtroppo, per efficacia. Nella prima Keanu Reeves sembra tornato nei panni di Thomas Anderson, impiegato in un’azienda di produzione videoludica e ideatore del videogioco Matrix, che ha rivoluzionato il mondo del gaming e la sua carriera. Il videogioco non è altro che la trilogia cinematografica originaria, che viene presentata come un’accuratissima realtà virtuale, di cui vediamo merchandising e immagini in tutta l’azienda. Le conseguenze del successo però si sono rivelate dure per Thomas che è rimasto infatti così ossessionato dal suo videogioco in realtà virtuale da non riuscire più a distinguere la realtà dalla finzione, vivendo una quotidianità complottista alienata e sentendosi costantemente minacciato, al punto di aver tentato il suicidio convinto di poter volare da un palazzo come Neo, il protagonista del suo videogioco. Per tutte queste ragioni è seguito in psicoterapia da un analista e gli vengono persino prescritti farmaci (che appaiono come pillole blu) per prevenire degli attacchi autolesionisti e critici di cui è vittima.
Per quanto coraggiosa, la scelta di trasformare la trilogia in un videogioco e di concentrarsi sui problemi personali di Thomas può risultare strana e difficile da digerire per gli spettatori, che si ritrovano disorientati e a vedere un film molto introspettivo e a momenti toccante, ma non un Matrix. Altra crepa di questa prima parte sta nel leggero imbarazzo suscitato dalle critiche e le citazioni alla società contemporanea, a momenti fin troppo didascaliche e stereotipate, che però almeno vengono alternate bene ai momenti intensi e toccanti, come la crisi di Thomas in terapia dove perde il controllo di mente e corpo. In generale bisogna ammettere che la pellicola assume toni forse più maturi e profondi rispetto al complottismo allettante del primo film, e attraverso la sofferenza di Thomas Anderson riesce a trasmettere allo spettatore un dubbio molto reale: Matrix era reale o no?
Dopo gli alti e bassi della prima parte è nella seconda che il film brilla davvero, e prende una piega tanto sorprendente da mutare retroattivamente le incertezze della prima in idee geniali, almeno inizialmente. Neo viene trovato nel Matrix e liberato nuovamente dalle macchine, momento vissuto inizialmente con scoramento in quanto sembra che nulla sia cambiato e la sua lotta e il suo sacrificio siano stati vani, ma questo viene smentito da Bugs (Jessica Yu Li Henwick) e il suo equipaggio. Da un lato la città delle macchine, le orde di sentinelle e la schiavitù della maggior parte degli umani esistono ancora, ma dall’altro è sorta Io, una città diversa da Zion frutto della collaborazione tra umanità e una nuova fazione delle macchine, nata in seguito ad uno scisma, che convive con l’umanità e crede nella cooperazione.

Questo è senza dubbio il momento più alto dell’intera pellicola in cui si respira l’atmosfera epica della saga ma allo stesso tempo con il superamento dello stallo “umanità contro macchine” il mondo di Matrix si espande verso un futuro sorprendente e innovativo. I personaggi stessi esplicitamente raccontano come Zion fosse bloccata nella paura e nella guerra, mentre adesso ci sono nuove possibilità di integrazione e speranza.
La vera, graditissima, sorpresa sta però nella rivalutazione della prima parte del film, in cui i tentativi di inserire citazioni critiche attuali, che potevano sembrare didascalici e imbarazzanti, adesso assumono un aspetto geniale, e insospettabile. Lo spettatore infatti inconsciamente si ritrova confuso all’inizio della pellicola, in quanto la narrazione e la critica ad aspetti contemporanei (come videogiochi, social, meme e ossessione per la celebrità) lo portano dubitare sia della qualità dell’opera, sia dell’esistenza del Matrix nella storia; ma la conferma che la simulazione era reale e stava riuscendo effettivamente ad ingannare tanto Neo quanto il pubblico mostra come sia in grado di insinuarsi nella quotidianità e nell’immaginario collettivo, assumendo una nuova forma; insomma in questo quarto capitolo incredibilmente per un momento «The Matrix has you».
Purtroppo la terza parte di Matrix Resurrections è la più problematica e meno riuscita, tanto da trascinare con sé le buone idee sparse nelle altre due. Se la prima presenta incertezza e la seconda da speranza e fiducia, la terza abbatte ciò che è stato costruito e pretende di suscitare un’epicità simile a quella della trilogia che però non è stata affatto costruita nel resto della pellicola. Colpo di grazia a questa narrazione confusionaria lo infliggono sia un moralismo un po’ spiacevole, che tentando di essere positivo e costruttivo finisce per risultare ripetitivo e noioso, e per sostituirsi alla filosofia che ha reso la saga un cult; sia un finale eccessivamente girlpower dai toni comici grotteschi, anche questo senza alcuna ammortizzazione, tanto in fretta appare e tanto in fretta scompare lasciando il posto ai titoli di coda.

Cosa funziona e cosa no
Analizzare Matrix Resurrections risulta molto difficile perché non si tratta di un’opera totalmente disprezzabile, è anzi costantemente disseminata di ottime idee originali, ma vengono gestite tanto caoticamente che, insieme ad alcune scelte discutibili, vanno necessariamente a compromettere il prodotto finale.
Estremamente singolare è il fatto che le varie parti della pellicola spingono a rivalutare retroattivamente le precedenti: di solito una parte di un film non cambia il giudizio di un’altra, in Matrix Resurrections invece il dilemma “reale o no” spinge lo spettatore a riconsiderare la natura delle scene viste fino ad un certo punto nella narrazione. Se questo aspetto vale positivamente per la seconda parte e la prima, vale molto negativamente per la conclusiva e il resto dell’opera. La terza infatti va a spezzare il climax che sembrava prendere finalmente forma e ritorna invece a tutte le debolezze che rendevano l’incertezza inizialmente protagonista. La differenza è che mentre le incertezze iniziali sono attribuibili ai tentativi della simulazione di ingannare Neo e spettatore, quelle nella fase centrale e finale riflettono idee esplicite poste di proposito a scopo moralistico nella pellicola, rendendola però appunto didascalica e inefficace.

Tecnicamente non si può non notare poi che mentre gli effetti speciali sono fedeli a quelli della trilogia, le coreografie e la regia dei combattimenti non hanno nulla a che vedere con il passato; da lucidi puliti ed emozionanti, nel quarto capitolo risultano sempre confusionari e tutt’altro che fluidi. Se prima i combattimenti in Matrix erano anche dei mezzi di comunicazione per far vivere allo spettatore il percorso di crescita di consapevolezza dei personaggi, o dei veri e propri scontri dialettici e concettuali a suon di Kung fu, ora sembrano semplicemente una dose minima obbligatoria di scene action da gettare ogni tanto nel film.
Inizialmente questo quarto capitolo sembra davvero compiere un balzo in termini di maturità e di consapevolezza rispetto al complottismo del primo Matrix, mostrando un’encomiabile attenzione ad aspetti della società contemporanea sincera e sensibile. Vengono inserite citazioni e critiche ad argomenti che difficilmente vengono trattate con un approccio serio, cosciente e rispettoso in un certo tipo di media e che faticosamente si stanno facendo strada nella consapevolezza collettiva (dalla dignità delle opere d’arte videoludiche alla psicoterapia non solo per “i matti”, a un rapporto complesso tra social e fama). Purtroppo però la pellicola fallisce nel dosare queste riflessioni che finiscono per snaturare il prodotto, tanto che mancano tutti i tòpoi che hanno reso storica la saga: i combattimenti pregni di significato, la filosofia e la lotta per l’autodeterminazione lasciano il posto ad azione sterile e mal gestita, moralismo e caos. Peccato perché come già detto di idee originali ce ne sono, e lo sguardo lucido critico della società in stile Wachowski rimane lo stesso, ma la confusione prende totalmente il sopravvento nella pellicola.
