Le due periferie che circondano Roma. Intervista a Massimo Ilardi

Consultando le produzioni artistiche, letterarie, cinematografiche che nell’ultimo settantennio hanno raccontato la periferia romana, è pressoché impossibile individuare un fil rouge, una linearità che almeno apparentemente riuscisse a inquadrare e raccontare in maniera univoca gli strabordanti confini della città. Intento, quello di categorizzare la borgata che circonda Roma, che si fa sempre più effimero con l’accelerare dei processi di inurbamento che mangiano il territorio circostante, disegnando traiettorie lontane anni luce da quel baricentro ormai millenario stabilito ab Urbe condita.
Valerio Mattioli, nell’efficace libro Remoria – La città invertita, intende l’agglomerato urbano nato al di fuori del Grande Raccordo Anulare come un luogo da anteporre letteralmente alla città di Romolo, una figlia degenere nata dalle atrocità di un fratricidio.
C’è chi invece, come il sociologo Massimo Ilardi, nel libro Le due periferie (Ed. Derive Approdi), individua una ambivalenza forse inconciliabile alla base della metropoli romana contemporanea: quella tra territorio e immaginario.
Nell’introduzione al libro citi un passaggio tratto da Regno a venire di J.G. Ballard che vogliamo trascrivere perché è un ottimo viatico per entrare subito nell’atmosfera del tuo saggio: «Il consumismo è un’impresa collettiva. Le persone hanno voglia di sentirsi unite. Quando andiamo a fare shopping partecipiamo a una cerimonia collettiva di affermazione».
Una dimostrazione plastica di ciò sono le grandi aree commerciali sorte nella periferia romana nell’ultimo ventennio, vere e proprie cattedrali in un deserto di servizi per il cittadino.
Allora la domanda è: esiste ancora il cittadino o ci siamo definitivamente trasformati in consumatori che di null’altro hanno bisogno se non luoghi adibiti al consumo?
Come cerco di spiegare nel mio libro, il consumo non è solo consumo di oggetti ma anche di eventi, emozioni, affettività, relazioni. Tutto viene consumato e dissolto, nulla appartiene al consumatore, di nulla si appropria e dunque ogni luogo, e non solo il centro commerciale, è destinato al consumo. Anche la cittadinanza rientra in questo vortice distruttivo: siamo cittadini in determinate situazioni e circostanze, non lo siamo in altre. Non dipende solo dalle leggi o dallo Stato, dipende soprattutto dalla forza dei nostri desideri e dai rapporti sociali che gli stessi desideri stabiliscono sul territorio per raggiungere il loro soddisfacimento. Se ci riescono diventiamo cittadini in quel determinato territorio o contesto sociale, altrimenti rimaniamo nella condizione di stranieri.
Fai giustamente notare che nelle periferie romane non esistono piazze, luoghi della collettività sin dalla notte dei tempi. Ma non esiste società se non all’interno di una agorà.
C’è chi utopicamente ha creduto che il ruolo della piazza potesse essere sostituito dal web, dai blog, dai social. Secondo te è un’alternativa credibile o piuttosto un pericolo che rischia di sfibrare definitivamente il concetto di socialità?
Sulla categoria ‘società’ ci sarebbe molto da riflettere e da discutere. Che vuol dire ‘società’ in un mondo globalizzato dal mercato ma frantumato in una miriade di minoranze sociali determinate dalle appartenenze culturali, di genere, di religione, di lingua, appartenenze che nella crisi della politica e nel vuoto istituzionale diventano talmente intense da stabilire chi è il nemico e chi l’amico? La società è una categoria modellata dallo Stato e mediata dall’agire politico, ma se questi due soggetti, politica e Stato, dichiarano fallimento non ci sono né piazze né agorà che possano supplire a questa mancanza. Certo c’è il mercato, ma non ha valori da proporre come la politica per tenere insieme una società. Qui si evidenzia il suo paradosso e la sua grande contraddizione: avrebbe bisogno di una società armonica e pacificata per espandersi ma poi con la sua espansione intensifica l’azione del consumo che proprio perché fondato sul desiderio non rispetta le regole che lo stesso mercato cerca di stabilire. Per governare, il mercato allora ha bisogno di controllare, blindare, chiudere, selezionare che sono però azioni che mal si addicono alla formazione di una società. E meno che mai ci possono riuscire i social organizzati su un individualismo impolitico e narcisistico che rispecchia fino in fondo la cultura del consumo che li ha creati.

In uno dei capitoli del libro fai riferimento alle grandi architetture di edilizia pubblica che erano state concepite come luoghi che incoraggiassero la socialità, la solidarietà, l’autogoverno (su tutte Tor Bella Monaca, Corviale, Laurentino 38). A distanza di anni, cosa non ha funzionato?
I grandi quartieri di edilizia pubblica hanno fallito proprio sul piano sociale. Rimangono dei grandi segni di architettura, forse i più grandi nell’Italia del secondo dopoguerra, ma alla fine hanno tradito gli intenti dei loro progettisti che parlavano di voler creare nuove comunità. Sono stati costruiti troppo tardi quando gli individui sognavano già la casetta di Biancaneve e i sette nani con annessa fontanella nel giardinetto e rifuggivano nello stare intruppati in condomini di migliaia di persone. Una aspirazione quanto mai coerente con la cultura individualista del consumo che stava montando negli anni Ottanta. Anche qui le conseguenze sociali di questi quartieri si possono leggere nel romanzo Il condominio scritto da quel visionario che è stato J.G.Ballard: nessuna comunità, poca solidarietà, guerra di tutti contro tutti.

Uno dei motivi dell’assenza di servizi nelle periferie romane è la conseguenza di anni di abusivismo e piani regolatori che anziché regolare a priori, rincorrevano la struttura della città a posteriori, a giochi ormai fatti. Ma se l’abusivismo diventa strutturale, dobbiamo abituarci all’idea di sopravvivere in luoghi di difficile vivibilità o esistono soluzioni tampone?
Insieme ad Alessandro Lanzetta, che ha scritto la postfazione al libro dove affronta la questione dell’espansione irrefrenabile delle villettopoli che nascono come funghi oltre il raccordo anulare, credo che proprio nelle periferie attuali si possano leggere le linee di tendenza che andranno a costruire la metropoli futura, la metropoli mediterranea soprattutto che cresce nel disordine e nell’abusivismo. D’altra parte finché l’espansione metropolitana sarà in mano al mercato e non alla politica questa mi sembra la conseguenza più ovvia. Non so se ci possono essere soluzioni tampone, bisognerebbe chiederlo a un urbanista, ma dato lo stato di profonda crisi del progetto urbano, una domanda simile meglio non farla, lo metterebbe in grande difficoltà.
Che distanza c’è oggi nelle periferie tra “territorio” e “immaginario”?
Credo che la distanza tra immaginario e territorio sia oggi minima e non solo nelle periferie. In una società che non conosce il futuro e vive tutto al presente, che non ha valori in cui credere e soprattutto che rifiuta qualsiasi mediazione politica che possa rivolgere al futuro aspettative e speranze, dove pensate che questa società proietti immediatamente i suoi desideri e i suoi immaginari se non sul territorio? Desideri e immaginari che ogni individuo, che vive in uno spazio totalmente manipolabile e privo di regole come nelle periferie, si sente legittimato a realizzare subito. Da qui nascono comportamenti intolleranti a regole e limiti e tonalità emotive aggressive e violente.