Essere Max Pezzali
Hanno ucciso l'uomo ragno, Max Pezzali invece non tramonta mai.

Stamattina ascoltavo una puntata di Raccontami di te, bel programma radiofonico condotto da Alessandro Pieravanti del Muro del Canto, in cui andava in scena un’intervista a Zerocalcare. Premessa inutile: non sono mai stato un amante di fumetti e benché meno di Zerocalcare. Ciò nonostante sono rimasto profondamente colpito da una sua frase che, mentre l’intervistatore ascoltava tra lo stupito e il beffardo, recitava più o meno così: «Max Pezzali è stato il primo artista che ha contribuito alla mia presa di coscienza di ciò che avviene nel mondo». Aggiungeva che, rivolgendosi al frontman degli 883, lo appellava con il nome di Maestro.
Beh, per me è la stessa identica cosa.
Sarà il mio provincialismo, avrebbe detto Guccini, ma anche io in Max ho sempre visto una sorta di fratello maggiore o una vera e propria guida spirituale, un faro da seguire in questi tempi bui. Sono stato il primo in assoluto a dichiarare la mia stima nei confronti della sua produzione discografica in tempi in cui affermare così sfacciatamente di essersi formati grazie a dischi pop nel contesto della scena rap non era cosa semplice. L’accusa infamante di essere un sucker era bell’e che apparecchiata. L’ho fatto nel disco di Don Joe e Shablo prima che, proprio Don Joe e Shablo, producessero il remake di Hanno ucciso l’uomo ragno. «Prima di ascoltare il rap me ne andavo fuori con Max e gli 883», dicevo.
Ho avuto la fortuna di conoscere e parlare con Max in un paio di occasioni. La prima credo di essermi gettato ai suoi piedi confessandogli quanto è stato importante nella mia vita, ma questo fa parte del mio lato groupie che, giuro, credo di avere manifestato solo con lui. Di lui mi ha colpito il suo essere persona estremamente alla mano, che quasi si schernisce, a dispetto del successo raggiunto nel proprio lavoro, atteggiamento anche questo probabilmente figlio del suo venire dalla provincia. E poi Max è un vero tuttologo. Ma non di quelli da social network che parlano di tutto e non sanno un cazzo di niente. Dal calcio alle moto, dalla musica country al costume, Max è in grado di padroneggiare con grande conoscenza e invidiabile proprietà di linguaggio un sacco di argomenti. E ha soprattutto la capacità di affondare la realtà ben oltre la superficie, con analisi acute e mai banali. Quest’impressione è stata recentemente corroborata dalla lettura del suo ultimo libro, Max 90, un vero caleidoscopio di memorie di un decennio mitico che lui ha saputo rappresentare come pochi.
Già, gli anni ’90… Gli anni dei motorini, delle compagnie e delle piazze. C’è chi rimpiange quegli anni e chi mente se lo nega. Tornando alla mia rima, Max nei primi anni ’90 ha fatto esattamente quello: rap prima del rap. Ha portato nella musica leggera argomenti e contenuti tipici del rap, ovvero la vita di tutti i giorni, il quotidiano vissuto dagli adolescenti di quel periodo. Sia chiaro, il rap già esisteva in quegli anni, ma non erano ancora arrivati gruppi come Articolo 31 e Sottotono che, proprio perché capaci di andare oltre i temi tipici di quel micro genere, erano stati in grado di parlare a una generazione intera dei suoi problemi, che fossero anche il basso potere d’acquisto del deca o la madre che ti caccia dalla stanza perché deve fare le pulizie. Che poi a dirla tutta, il nucleo concettuale di un pezzo come Weekend non ha nulla da invidiare al Sabato del villaggio di Leopardi…
Le canzoni degli 883 sono materiale preziosissimo, molto più di tanta sociologia, per studiare la generazione cresciuta negli anni ’90, così come lo sono i testi dell’indie o della trap per capire quella attuale. La prima, cresciuta in un’epoca pre-digitale o comunque di transizione dove il gruppo, la comitiva, lo stare insieme rappresentavano valori fondanti, ma con una spiccata componente di materialismo. La seconda, nata con lo smartphone in mano e in cui il sé prevale ineluttabilmente sul noi, ma anche più profonda e introspettiva.
È bello crescere. È bello fare progetti e realizzarli. Ma tutti abbiamo bisogno di quel momento di nostalgia in cui crogiolarci. Ed è lì che i dischi degli 883 arrivano puntuali a darci una mano. Con Google Maps oggi sarebbe impossibile perdersi come in Rotta per casa di Dio, ma chi, una volta ogni tanto, non ha bisogno di una serata “senza fidanzate, troie né mogli”? A chi non capita di cantarla quando all’Autogrill vede il Camogli?
Mi è successo di piangere solo una volta guardando un film e c’è solo una canzone che mi fa versare lacrime ogni volta che l’ascolto.
Ho pianto durante la scena finale di Quattro sotto zero, quando i giamaicani si rialzano e portano a spalle il bob, e piango ogni volta che passano Gli anni.