Il Sacrificio: la differenza fra l’immolarsi in Tibet e lo spararsi a Notre Dame de Paris
Il sacrificio è un termine usato con grande parsimonia nel quotidiano vivere. Spesso però si dimentica il suo significato più profondo e primitivo: il sacrificio è privarsi, rinunciare a qualcosa in vista di un fine ‘superiore’ da raggiungere.
Il sacrificio può essere di vari tipi, quello più estremo, del quale vogliamo parlare oggi, è l’immolazione ovvero privarsi della vita per far valere i propri diritti, per seguire i propri valori, per coerenza verso le virtù e le idee professate.
Quando Socrate venne condannato a bere la cicuta, con l’accusa di irreligiosità e corruzione dei giovani, i suoi amici erano riusciti con grande facilità a corrompere le guardie per farlo evadere. Ma Socrate rifiutò l’invito verso la libertà: fuggendo avrebbe dato uno schiaffo a quelle dottrine e a quei valori che professava da una vita. Fu coerenza.
La stessa coerenza che ogni anno decine di tibetani seguono quando per far sentire la loro voce, la loro richiesta di libertà al mondo, scelgono l’unica via che gli è possibile perseguire, darsi fuoco. Dolori acuti e lancinanti pervadono le carni, le fiamme lentamente bruciano il corpo mentre dall’altra parte del mondo, quasi in diretta, paesi democratici come il nostro rimangono a bocca aperta. La bocca poco dopo si richiude, in pochi si domandano il perché di tali gesta, alcuni metabolizzano l’accaduto come si fa per un film horror.
Poi accade che in un paese democratico come il nostro, in Francia, per la precisione a Parigi, un uomo entra a Notre Dame prende la pistola e si spara. Il motivo del suicidio? Protestare contro una, sue parole, “legge infame” quella che in Francia ha reso legali le nozze per le coppie omosessuali. Dominique Venner, questo il suo nome, era uno scrittore storico, ideologie vicine all’estrema destra, e prima di morire aveva scritto sul suo blog:
«Serviranno certamente gesti nuovi, spettacolari e simbolici per scuotere i sonnolenti, le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini. Entriamo in un tempo in cui le parole devono essere rese autentiche da azioni».
Sorge dunque spontaneo accostare il gesto di Venner con quello compiuto da chi si immola in Tibet e perché no, anche con il gesto compiuto qualche millennio fa da Socrate. Sorge spontaneo perché è giusto provare a capire quali sono i confini fra sacrificio e rinnegazione.
Socrate era stato praticamente condannato a morte, fuggire e salvarsi avrebbe salvato il suo corpo ma ucciso la sua anima e i valori sui quali egli fondava le sue idee. I tibetani che si danno fuoco non hanno altri mezzi per avere il giusto eco mediatico e far vedere al mondo che in quel lembo di terra, dove ricordiamo non c’è democrazia, c’è bisogno di maggior attenzione e di ‘autentiche azioni’.
Ma nella Francia della “Liberté, Égalité, Fraternité” le vie che si possono perseguire, da uomo libero, sono infinite così come i sacrifici che possono essere compiuti. Per questo motivo paragonare il gesto compiuto da un uomo di 78 anni, forse stanco di vivere in un mondo che non rispecchia i suoi valori, non è da considerarsi come sacrificio ma rinnegazione, anzi negazione della vita: «Certo è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa (Goethe)».
Enrico Ferdinandi
(Twitter @FerdinandiE)
4 giugno 2013