Un racconto nell’arte di Alice Pasquini

Alice Pasquini ha girato tutto il mondo con la sua arte. Ha disegnato e trasformato luoghi, spazi, ambienti in vere e proprie opere. Storie e racconti di donne, lontane dai classici clichè e stereotipi, ma donne vere, reali. Ha ridato vita alle pareti di carceri femminili o centri di accoglienza. Per una incredibile coincidenza ha ridato vita ad un paesino nel Molise viaggiando poi tra Stati Uniti, Vietnam, Indonesia, Capo Verde, Singapore, Turchia o a Mosca dove tra neve, istruzioni in cinese il lavoro non è stato semplice. Artista internazionale nata e cresciuta a Roma rifiutando la rigida impostazione di Accademie e uffici per seguire la spontaneità della sue idee, dei suoi disegni, delle sue opere.
Oltre la superficie urbana usata come tela, per Treccani, è uscita una versione diversa dell’autrice, più intima. L’occhio è quello di Alice verso il mondo, non il contrario. Un diario di viaggio in cui sono raccolti disegni presi da 12 anni di avventure, storie e appunti. “Sono il contesto, il luogo, la forma del muro a ispirarmi. Tutte le mie idee prendono vita su un quaderno che porto sempre con me in giro per il mondo”
Le parole, i racconti, la visione e le origini di Alice me la racconta direttamente lei al telefono in una veloce ma interessante conversazione incentrata appunto sul libro uscito per Treccani “Alicè” e che vede anche la collaborazione di Anna Luigia De Simone, Vincenzo Trione e Emanuele Trevi.
Intervista ad Alice Pasquini
Alice, da dove nasce questa passione e quanto ha influenzato per la tua arte essere cresciuta in un ambiente in cui l’Hip – Hop e le varie discipline che lo compongono stavano iniziando a nascere e ad evolversi?
Sicuramente è stata una parte importante nella mia vita. Da adolescente andavo al Liceo Artistico e nel pomeriggio andavo in piazza dove c’erano ballerini con la breakdance, musicisti e artisti che iniziavano ad esplorare questo universo. Rap, beatbox, spray che non avevo idea di come si maneggiasse o di cosa fosse. C’erano moltissime nazionalità diverse che rendevano ancora più ampio lo scambio artistico e culturale. Erano i tempi, poi, di Piazzale Flaminio, punto di ritrovo per moltissimi artisti che poi hanno avuto una grande carriera negli anni. La street art è stato un termine venuto dopo, negli anni, per dare un nome a questo tipo di arte e per generare anche un mercato futuro. Direi che nasce da questo contesto la mia arte e la mia passione.
Per collegarmi a questo, credo che la Treccani abbia fatto un grande lavoro per la Street art in generale e ora con il tuo libro/diario rafforza ancora di più questa visione..
Assolutamente, Treccani ha fatto un lavoro incredibile. Loro hanno inserito, nel 2016, il termine Street Art nel vocabolario dimostrando l’attenzione e la voglia di aggiornarsi e capendo come oramai questo tipo di arte sia un avanguardia che esiste da oltre quarant’anni e che ha un mercato solido e vario. La Treccani, insomma, è viva.
Sul diario. L’idea nasce anche per fissare dei ricordi o delle opere che invece, nelle città o nei diversi spazi urbani sono modificabili da molteplici eventi o situazioni?
Questo libro è il mio diario, segue un viaggio lungo intrapreso molti anni fa in cui io sono l’osservatrice. Guardo e cerco di rapire con gli occhi le situazioni che mi circondano, il mio punto di vista sul mondo. Non sono più le mie opere quindi che vengono viste e toccate, ma sono io che mi appunto i loro frammenti di vita. La selezione dei disegni non segue una scelta logica, ma di cuore. Per bellezza, per temi ricorrenti o per il luogo ho deciso di inserire un disegno piuttosto che un altro. Direi che è la prima vera opera privata, fatta principalmente per me e non per il mondo esterno.
Un viaggio lungo e tortuoso con anche scelte difficile tipo quella di licenziarsi da un lavoro “sicuro” per inseguire la tua passione e la tua arte..
La decisione è stata presa di punto in bianco, una vera e propria esplosione di passione. Ho provato a fare di tutto, lavoravo per un quotidiano importante. Tuttavia si stava muovendo e stava crescendo un movimento a cui sentivo di appartenere. Ho visto un opportunità e mi ci sono fiondata con il parere contrastante di genitori e parenti. Siamo anche la prima generazione così detta Erasmus in cui si poteva viaggiare a basso costo e girare il mondo e questo ha sicuramente facilitato la mia scelta. Mi sono resa conto, con il tempo, di essere riuscita a diventare ciò che volevo essere e questo non può che rendermi felice. I primi lavori me li commissionavano i cittadini stessi per rendere unici alcuni luoghi privi di vita o di colore poi piano piano la Street Art è cresciuta ed è diventata un vero e proprio lavoro che mi ha permesso di viaggiare, incontrare persone e crescere come artista.
Il progetto, nato per una coincidenza incredibile, di Civitacampomarano è uno dei lavori a cui sei maggiormente legata?
Assolutamente, un posto che stava scomparendo. Grazie all’arte è diventato un luogo turistico che porta gente da tutto il mondo. Inoltre serve anche a riscoprire dei valori e delle credenze totalmente differenti da chi vive in città. Dare di nuovo vita a posti del genere è fondamentale per far emergere identità e valori. Bisogna coltivare la cultura della nostra umanità, anche e soprattutto attraverso l’arte. Nelle mie opere, infatti, cerco sempre di essere coerente e cerco di entrare con delicatezza nel luoghi pubblici. Nella Street art come movimento, credo che il requisito fondamentale sia la spontaneità e anche con questo diario cerco di imprimerla attraverso i miei ricordi.