Responsabilità cristiana, intervista a Matteo Maria Zuppi

Dal Corno d’Africa al Sahel, la violenza e i conflitti armati sembrano conoscere una nuova
intensità in Africa. A pagare per l’escalation è nuovamente la popolazione civile, popoli messi
a tacere e martoriati dalla fame. Cosa pensa dell’attuale contesto che si sta definendo nel
continente africano?
È importante sottolineare che allo stato attuale, purtroppo, c’è una presenza minima nei processi decisionali interni alla realtà africana dei rappresentanti della società civile. Nella storia del Continente un ruolo chiave nella formazione della società civile é stato svolto dalle congregazioni religiose cristiane ed in generale da quelle ecumeniche. In Mozambico fu forse una delle prime volte in cui la società civile si organizzò, cioè in cui, indirettamente, la Chiesa dette vita ad un inizio di società civile in cui non vi erano posizioni partitiche contrapposte sulla base di interessi di parte. C’è stato, in alcuni casi, un innesco della società civile, per esempio in Congo, ma tale processo è stato caratterizzato da un forte accento occidentale. La vera autonomia, la vera libertà della società civile, è ancora qualcosa da conquistare. Il campo che sicuramente è necessario potenziare rimane l’educazione. Un ruolo importante hanno tentato di svolgerlo le scuole dei missionari. La scuola è la prima grande consapevolezza, quella che ti rende capace di essere civile, di capire e, quindi, di esistere come persona.
Spesso il continente africano viene visto o come un pericolo per l’immigrazione o come una
terra di materie prime da cui attingere e sottrarre. Partendo dal discorso sul Piano Mattei, in
che modo l’Italia, anche come presidenza del G7, potrebbe fornire una nuova idea di guardare
al continente africano?
Innanzitutto, l’Italia ha un rapporto unico con l’Africa, non fosse anche per la sua natura geografica che la rende fisicamente la radice dell’Europa piantata verso il Continente africano. Quando parliamo di “Eurafrica” non parliamo soltanto di un giocattolo di geopolitica di vecchi sognatori. Léopold Sédar Senghor, ex Presidente del Senegal, parlava non a caso di questo concetto unitario e la ritengo una visione molto realistica, che, però, richiede alcune condizioni. In primis pensarsi assieme. Non c’è dubbio, l’Africa da un punto di vista demografico sarà il continente più popoloso ed in cinquant’anni supererà la Cina. Allora, credo, che se ti pensi come realtà unitaria, forse potremo attuare quello che con intelligenza, a mio parere, la Caritas ha già detto da qualche anno: “liberi di partire, liberi di restare”. L’Africa è un’enorme risorsa. Per quanto concerne il Piano Mattei, indubbiamente la direzione è giusta e apprezziamo la visione alla quale, spero, seguirà un sistema e un finanziamento adeguato, che valorizzi anche la ricchissima presenza italiana in Africa, come le organizzazioni non governative o i missionari, bisogna vedere se poi il contenuto rispecchierà le idee di partenza.
Per chiudere questo primo quadro geopolitico, parliamo dell’Apostolato del Mare, l’Ufficio
Nazionale all’interno della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana per il
coordinamento della cura pastorale specifica rivolta alla gente del mare. Quali sono gli
obiettivi che tale ufficio si è posto per il futuro?
L’idea dell’Apostolato del Mare ha un’origine “antica” ma sicuramente intelligente in quanto si
impegnava a garantire dei luoghi di accoglienza ad un’umanità che viveva in condizioni di grande povertà sia materiale che spirituale. Io credo che ci sia, attualmente, una grande sfida: il rischio che il Mediterraneo tradisca la sua identità, la sua storia, quella di essere luogo di scambio e di incontro. Ci ricordiamo sempre di più degli scontri che non gli incontri ma basta andare in Sicilia e si capisce subito quanto quello sia un luogo di scambio culturale fortissimo.
In passato alcuni hanno ipotizzato che il Mediterraneo fosse la faglia di un nuovo scontro: caduto il Muro, l’uomo avrebbe avuto la necessità di costruirne un altro, ideale, tra la riva nord a sud del Mediterraneo. Purtroppo, le conseguenze di questa impostazione ancora ce le portiamo un po’ dietro. In tal senso nasceva l’Apostolato del mare per cercare di salvare la vita di chi tentava di trovare una nuova casa, non mettendo mai in discussione la vita stessa.
Da quelle che sono considerate le periferie del mondo alle periferie delle nostre città. È stato a Torre Angela dal 2010 al 2012, realtà lontana dalle luci del centro storico della Capitale. La Chiesa come può aiutare dal punto di vista pratico i ragazzi che vivono in questi contesti difficili a non fare scelte sbagliate e soprattutto com’è cambiato, con l’avanzamento della società, il rapporto tra giovani e fede?
È una lotta. Se si va nella chiesa di Torre Angela si troveranno degli olivi che sono stati piantati dai genitori che hanno avuto dei figli deceduti per abuso di droga: ogni ulivo, un figlio. Da una parte, la Chiesa cercava di combattere le dipendenze, dall’altra di dare dei presupposti per costruirsi come persone, creando relazioni. La Chiesa è comunità, mentre molte volte vince l’individualismo e la solitudine. Credo che l’oratorio di oggi, nella sua versione 2.0 ancora da comprendere pienamente, possa divenire un punto di riferimento. Con i giovani il rapporto è cambiato perché è cambiata la Chiesa. Posso parlare per il centro-nord: se prima la Chiesa coinvolgeva, oggi accade molto di meno. Penso che la Chiesa, invece, abbia tanto da dire, anche ai ragazzi di oggi. Sono stato in diverse scuole ultimamente per degli incontri e mi ha colpito molto il fatto che, in generale, le domande fossero segnate dal pessimismo. La Chiesa in questo potrebbe aiutare i giovani a tornare a credere che c’è una speranza.
A proposito del ruolo della religione nella società contemporanea, si è parlato spesso del disincanto del mondo e di un’incapacità della religione di strutturare oggi la realtà sociale. In un mondo che sembra andare sempre più verso la tecnica e alla luce dello sviluppo della tecnologia AI, quale ruolo può ritagliarsi il cattolicesimo?
Penso che il cattolicesimo abbia molto, moltissimo da dare. Per esempio, è una delle poche realtà orizzontali, trasversali, in cui non ci sono caste, che unisce l’Occidente e l’Oriente. La Chiesa, il cattolicesimo, sono universali. Il vantaggio del cattolicesimo è che non è nazionalistico, non può esserlo per la sua natura sovranazionale. Mentre tante Chiese sono spesso molto più legate alla cultura d’appartenenza, la Chiesa Cattolica ha una cultura universale. Il secondo fattore su cui mi preme riflettere è il fatto che la Chiesa Cattolica è quella che più di tutte si è impegnata nel dialogo tra le religioni. Non solo a livello puramente accademico ma soprattutto nel cercare di farlo in una maniera più popolare possibile, coinvolgendo le comunità. E questa è un’enorme sfida in un mondo che fatica a trovare quello che unisce. In questo senso, la Chiesa cattolica, con tutti i suoi limiti, ha
questa storia e quindi anche questa responsabilità: rappresentare unità in un mondo diviso.
Intervista a cura di Lorenzo Bruno, Damiano Rossi, Jacqueline Rastrelli