Posso dire che Druk (Drunk) mi è piaciuto solo un poco?

Druk, il nuovo film del danese Thomas Vinterberg, acclamato per la sua anticonvenzionalità, si presenta più come un moderato trattato sulla sregolatezza.
Una trama disarticolata per una cinematografia sofisticata
Spregiudicato, ironico, anticonvenzionale, tragicomico; sono solo alcuni degli aggettivi che sono stati, forse con estrema generosità, utilizzati per la nuova pellicola Druk (Drunk, Un altro giro) del regista danese Thomas Vinterberg (già conosciuto per il delirante Festen e Il Sospetto). Sicuramente un film disinibito nei suoi articolati e spregiudicati virtuosismi cinematografici, e per l’interpretazione magistrale e sopra le righe di Mads Mikkelsen (e fra gli altri del collega Thomas Bo Larsen) che da soli valgono il piacevole sforzo dello spettatore di stare incollato alla poltrona del cinema, finalmente aperto e di nuovo accessibile, per quasi due ore. Tuttavia la sceneggiatura del film, che gioca sulla stratificazione strutturale e il parallelismo dei piani narrativi, sembra particolarmente debole e più stereotipata di quanto si voglia far credere. Pregevole il fatto che la telecamera non si trasformi in un occhio giudicante e moralista di fronte al comportamento dissennato e disdicevole dei protagonisti; come in un documentario, la macchina da presa segue l’esperimento fallimentare di quattro docenti in crisi di mezza età con freddezza, disorientamento, disillusione. In una società che, fin dalla giovane età (e con una particolare e inquietante precocità nei paesi nordici) quasi istiga all’uso dell’alcol, nelle menti degli insegnanti di un liceo danese si fa strada, inizialmente con estrema curiosità e divertimento, la teoria dello psicologo e psichiatra norvegese Finn Skårderud (nato nel 1956).
Dal libro alla bottiglia
Per il medico e studioso nasciamo con un deficit alcolico dello 0,5% che va costantemente colmato e i protagonisti di Druk lo prendono alla lettera. Comincia quindi per loro un calcolato e costante esperimento, uno stillicidio alcolemico che li porta in un primo momento a corroborare le teorie apparentemente bislacche di Skårderud. Acquistano fiducia in loro stessi e la trasmettono, con entusiasmo, ai loro allievi, dimostrando quanto personaggi che hanno cambiato il corso della storia, musicisti e artisti abbiano, più o meno inconsapevolmente, sposato questa teoria.

L’esperimento però sfugge loro di mano: all’aumentare del tasso alcolemico nel sangue, tradotto cinematograficamente in una lunga processione di sbornie mattutine e serali, risse, balletti, compare presto il rovescio drammatico della medaglia. Aumenta il livello di insoddisfazione, personale e collettivo, le relazioni interpersonali, già incrinate, si sgretolano inesorabilmente, raggiungendo il parossismo nel suicidio di uno dei personaggi, tanto apparentemente sorprendente quanto annunciato. Al ripristino della situazione iniziale, senza alcol e dissolutezza, anche i molteplici e disgregati livelli narrativi sembrano ritrovare una parvenza di serenità ed equilibrio.

Dunque bere troppo fa male, bere poco un po’ meno. Non è sicuramente con questa sarcastica e semplicistica frase che si può ridurre un esperimento cinematografico di alto livello e sicuramente apprezzabile. Ma rimangono molti dubbi sulla sceneggiatura frantumata, che affronta diverse tematiche (relazioni familiari, personali, sentimentali, transgenerazionali) senza però armonizzarle. Probabilmente, come suggerisce il finale del film, a molte problematiche non c’è soluzione: solo il l’ansia del fallimento e la consapevolezza di essere fallimentare (di kierkegaardiana memoria) possono determinare il vero e profondo significato di questo sincero quanto drammatico trattato della sregolatezza.