Petite fille, un delicato ritratto dell’infanzia transgender

La storia di Sasha e della sua infanzia “incompresa”
Sasha ha sette anni e abita nel nord della Francia. Come molti bambini di tutta Europa, ma oserei dire di tutto il mondo da quando è stato creato, vorrebbe andare serenamente a scuola; ma ogni giorno una stretta allo stomaco le impedisce di vivere pacificamente le notti e i risvegli che annunciano l’inizio di una nuova mattina. Abbiamo provato tutti quella strana sensazione di voglia e paura, mista a terrore reverenziale, che in molte occasioni ha turbato la nostra infanzia. Sasha ha un motivo ulteriore, e condivisibile, che agita le sue giornate: è affetta da un “disturbo”. Un disturbo che quasi tutti interpretano come uno strano vizio, o peggio ancora, come una malattia. Sasha ha la cosiddetta disforia di genere, più comunemente e stigmaticamente conosciuta come disturbo dell’identità di genere, che indica quel malessere percepito da chi ne è affetto di non riconoscersi nel proprio corpo e nel proprio sesso. Sasha è nata biologicamente bambino, ma da anni sa e sente perfettamente di essere una bambina: ne sono una testimonianza i suoi tratti delicati, i suoi capelli setosi con un ciuffo spostato vezzosamente di lato e tenuto da un fermaglio colorato, il suo disgusto assoluto per tutto ciò che di maschile è in lei. Conduce una vita il più possibile normale, amatissima da una famiglia modesta e tenace che si stringe intorno a lei e che riesce con fatica a placare la sua immensa disperazione ogni volta che un’occasione “pubblica” la costringe a nascondere la sua vera natura. Quando vorrebbe giocare nel cortile con le altre bambine e indossare minigonne e pull colorati, il preside interviene invocando norme denigranti; a danza, al posto del body e delle scarpette, deve indossare l’uniforme maschile. Per non parlare dei medici di quartiere, spesso incompetenti, il più delle volte poco empatici.

Il nuovo documentario di Sébastien Lifshitz sul canale ARTE.fr
La lotta della madre Karine, che ha concesso al documentarista francese Sébastien Lifshitz, icona del cinema queer, di entrare nella famiglia di Sasha e seguirla per un anno, assomiglia di più ad un’autentica guerra di trincea: è prima di tutto una lotta con se stessa, per lenire il senso di colpa che accompagna costantemente i genitori di figli con disforia, rei di aver creato dei veri e propri “mostri”. È soprattutto una lotta con la società, per ottenere un riconoscimento naturale di diritti: il diritto all’infanzia e alla libertà di espressione. Il percorso terapeutico e sociale di Sasha e della sua famiglia è lungo, tortuoso, pieno di ostacoli, ma non per questo necessariamente tragico.

Il cammino della piccola bambina dai capelli lunghi e dagli abiti colorati e girly rimane comunque drammaticamente felice e, grazie all’aiuto di un’équipe di esperti, libero di un fardello altrimenti insopportabile. Il messaggio di affetto, tolleranza e libertà che traspare evidente nel documentario è frutto della sensibilità spiccata del regista, più abituato, cinematograficamente parlando, ad occuparsi di tutto ciò che ruota al mondo dell’omosessualità (come in Les Invisibles) e della trasformazione tout court in età adolescente e adulta. In questo specifico documentario, da poco uscito sul canale ARTE.fr, Lifshitz si rivela ancora più accurato nel trattare un tema delicatissimo, poco rinomato nel dibattito pubblico e di difficile comprensione quale la disforia di genere nei bambini, che peraltro è ben lungi da essere accomunata a qualsiasi pulsione intima. Se abbiamo riso, pianto, cantato e ballato in serie TV come Transparent, con un magnifico Jeffrey Tambor nel pieno di un processo di transizione in età adulta, con Petite Fille lo spettatore si addentra, intriso di disponibilità ed empatia, in un profondo e tenero ritratto d’infanzia.
Contenuto in partnership con Brussels Morning Newspaper