Il Don Giovanni di Molière al Teatro Carignano di Torino

Quando si parla di seduttori, il panorama culturale di ieri, oggi e (probabilmente) di domani, ci presenta figure maschili che si sono evolute nel tempo e che hanno fatto innamorare il pubblico femminile, pur considerando i loro caratteri spesso controversi.
Ad oggi, parlare di seduttore rappresenta un rischio proprio perché sono venute a galla tematiche sgradevoli come le molestie, le violenze che non sono poi chissà quale novità, perché ci sono sempre state: oggi se ne parla, oggi vengono fuori, oggi le donne non stanno più in silenzio.
Dunque anche una figura come il Don Giovanni di Molière risulta assai difficile da rappresentare: quando poi la rappresentazione è teatrale, sapersi distinguere dal classico, è oltremodo complicato.
Il regista Valerio Binasco, nuovo direttore artistico del Teatro Stabile di Torino, torna sulle scene usando un testo classico, ma facendolo suo e più moderno, in una prova che ottiene un ottimo risultato. Un Don Giovanni non alto e slanciato, ma un ragazzo di robusta costituzione, con pantaloni & anfibi & giubbotto sportivo, che agli occhi dello spettatore, appena appare sulla scena, risulta tanto detestabile quanto gretto.
Volgare, ateo, privo di ogni pudore, violento e irrispettoso: il suo schiavo / compagno di scorribande Sganarello ce lo mostra subito, nella seconda scena, quando mostra i segni delle frustate sulla sua schiena, causategli dal Don in persona. L’interprete di questo personaggio è capace di modificare la propria opinione a seconda di chi si trovi davanti: remissivo e impaurito davanti al suo padrone, spudorato e sincero davanti agli occhi degli spettatori.
La modernità dello spettacolo sta non soltanto nello svecchiamento delle figure che si muovono sul palcoscenico, ma anche nella scelta delle musiche: la rappresentazione si apre con la canzone “Stairway to Heaven” e questo già cattura l’attenzione anche di chi non sapeva cosa aspettarsi da questa proposta del Teatro Carignano. La musica si sa, cura il cuore e l’anima e dunque anche le note musicali che si susseguono durante lo svolgimento della storia fanno da perfetto contorno alle scene che passano dall’essere semplici dialoghi tra due personaggi (di particolare importanza quello che c’è tra Don Giovanni e Sganarello sulla religione), a delle scene di corteggiamento da parte del seduttore (che nonostante la sua figura così diversa da quella che ci si potrebbe immaginare, è non soltanto credibile, ma anche molto efficace e riesce a catturare gli occhi delle giovani donzelle), fino ad arrivare a scene di scontri e violenze tra Don Giovanni e i suoi avversari, che comunque avranno pietà di lui perché è la vita per prima che alla fine lo punirà.
Il personaggio di Elvira, che per certi versi rappresenta un po’ quel perno intorno al quale si sviluppa il personaggio di Don Giovanni, ha il suo effetto grazie ad una figura femminile tutta capelli: una ragazza piena di tantissimi ricci, lunghissimi, che appaiono appena da sotto il velo, ma che vengono liberati di colpo in un gesto di rabbia e che rivelano tutta la sua innocenza e la sua vulnerabilità. Tali caratteristiche verranno meno verso la fine dello spettacolo, quando presa dal sentimento d’amore che prova per Don Giovanni, si lascia andare ad un comportamento lascivo e spudorato, per convincerlo a salvarla un’ultima volta.
Quello che contraddistingue anche questo spettacolo è la risata: la storia di per sé stessa non ha nulla di divertente, ma tra il dialetto napoletano parlato da alcuni personaggi e le opinioni date da Sganarello al suo padrone (palesemente finte e solo Don Giovanni non si rende conto di quanto gli stia mentendo in faccia), il sorriso scappa e ben volentieri. Il teatro ha in fondo anche la funzione di distrarre, di divertire, di non appesantire troppo con la sua lunghezza e le sue tematiche e se tutte queste funzioni vengono portate a termine nello stesso spettacolo, allora l’obbiettivo è stato centrato completamente.
La messa in scena ad opera di Valerio Binasco riesce davvero nel suo intento, proprio perché non si fa intimorire dalla tradizione di una commedia tragica uscita per la prima volta nel 1665, anzi al contrario la rispetta e la fa sua, adattandola agli anni 2000 e facendole calzare a pennello un abito nuovo, fresco, per certi versi diverso, ma non necessariamente migliore o peggiore della sua veste classica.
Rebecca Cauda