‘Il nome della rosa’, il capolavoro di Eco sul palcoscenico del Teatro Argentina

Italia del Nord, Anno Domini 1327. Un monastero benedettino, che custodisce una rinomata e preziosa biblioteca, alimentata dalle fatiche quotidiane dei monaci amanuensi e copisti, si accinge a diventare – per pochi giorni – luogo di confronto e, si spera, di conciliazione, tra i Francescani fautori della povertà della Chiesa e appoggiati dall’Imperatore, ed i rappresentanti della curia papale, insediata ad Avignone. L’abbazia diventa però rapidamente il cupo teatro di una sequenza di morti inspiegabili e simboliche. Tra quelli che presagiscono l’Apocalisse e l’Antipapa, ed altri che alludono ai vizi segreti dei monaci uccisi, toccherà al francescano Guglielmo da Baskerville (con il suo allievo Adso da Melk, anche in veste di canuto narratore) cercare un barlume, che sarà accecante, di verità, nonostante tutto e tutti.
Pubblicato nel 1980 da Bompiani, trasposto per il cinema nel 1986 con grande successo da Jean Jacques Annaud (con uno splendido e ironico Sean Connery, nel… saio di Guglielmo), il romanzo di Eco è e rimane soprattutto un racconto di libri: libri che appaiono e scompaiono misteriosamente, libri che ispirano la ricerca della verità (umana, più che divina), libri sacri e libri profani, libri che salvano e libri che uccidono (letteralmente).
Ma qualunque adattamento teatrale, specie per un romanzo così complesso e ricco di rimandi, in cui si intrecciano, avvolgendo il lettore, il piano filosofico, quello storico e quello poliziesco (il metodo di Guglielmo da Baskerville, illuminato pensatore ed ex indagatore della Santa Inquisizione, è lo stesso, “pari passu”, dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle), qualunque adattamento dunque è – inevitabilmente – una riduzione. Da qui la necessità di una speciale sensibilità, di una misura accorta nei tagli, dolorosi ma necessari, ad un testo che in più di quattrocento pagine racconta sette giornate di inganni e disvelamenti, confessioni estorte e rivelazioni sorprendenti.
La messa in scena all’Argentina, con il testo teatrale di Stefano Massini e la regia e adattamento di Leo Muscato, è senz’altro rispettosa del testo scritto, intuitiva e funzionale nella scenografia (che è semplice e funzionale ma anche evocativa), sorprendente e seducente nel gioco delle luci e delle proiezioni che la trasformano ora nelle cucine buie, ora nella biblioteca labirintica.
Visivamente ispirata anche al film di Annaud, l’ambientazione medievale raduna tra gli altri il cellario Remigio da Varagine, pingue e intrigante tra crapula ed eresia, il factotum Salvatore dalla parlata improbabile ma espressiva, un esperanto cucito assieme con pezzi delle lingue più diverse, e un venerabile Jorge, ex-bibliotecario ormai cieco, ieratico e impietoso difensore dell’ortodossia. Tutti perfetti, credibili e tormentati come nel romanzo, da cui sembrano uscir fuori, chi d’un balzo chi strisciando, tutti comunque dannati.
Va detto senz’altro che la vicenda mantiene un buon ritmo, secondo i casi sostenuto o quieto, ma sempre col passo giusto, e valorizza i personaggi (e le interpretazioni) straordinari, passando dalla cupezza degli omicidi alla dolcezza malinconica del primo amore (mortale) di Adso, quest’ultimo raccontato con un garbo degno della penna di Eco.
La narrazione del vecchio Adso, come anche nel romanzo, è lì di volta in volta a cucire insieme il senso e la prospettiva della storia, e della Storia (che si intrecciano e si alludono).
Si sa che l’adattamento teatrale è detto anche, non a caso, riduzione teatrale: si deve privilegiare il dialogo sulla riflessione, l’azione sulla descrizione. Dunque, pur facendo il meglio, e pure in uno spettacolo che dura più di due ore e mezzo, qualcosa si perde: certi passaggi sono forse un po’ frettolosi, a volte frate Guglielmo sembra aver troppo da dire in una scena che sembra aspettarne l’epilogo, e certo la complessità dei giochi di seduzione (carnale e intellettuale) e di potere che riempiono le ombre dell’abbazia a tratti risulta un po’ semplificata.
Nel “Nome della Rosa” di Leo Muscato e di Stefano Massini, resta comunque immutato, se non anche aumentato, il fascino malinconico di un’epoca antica, animata e percorsa da pulsioni e faide religiose e politiche, così come evocato e raccontato da Umberto Eco nel microcosmo dell’abbazia.
Restano la freschezza e il vigore dei personaggi, raccolti per un breve attimo tra quelle mura opache, così vivi ed effimeri, resta la nostalgia di un’immaginaria sapienza millenaria, migliaia di libri rari e contesi, raccolti e gelosamente custoditi in un oscuro labirinto di sale segrete, e proprio per questo destinati a disperdersi in cenere.
Il nome della rosa
di Umberto Eco, regia e adattamento Leo Muscato