Il collezionista di fake news: Travaglio asso vincente del festival del giornalismo
Il teatro è un contenitore di storie, alcune tragiche, altre a lieto fine, altre ancora comiche, ma di certo, tutte o in parte frutto di una congegnata finzione. Ciò nonostante di rado avviene che un pizzico di finzione basti a riempire un’intera sala di spettatori.
Ma fai che il direttore di una delle più note testate nazionali si metta a raccontare storie vere di notizie false, (guarda caso sul palco di un teatro), e accadrà esattamente quello che ieri, al Festival del Giornalismo, si é verificato al Morlacchi: 800 posti completamente esauriti dopo 10 minuti, fila chilometrica, bando alle iperboli, uno stuolo di volontari e tecnici dispiegati nell’evento.
Chiasso, chiacchiericcio, leggero bisbiglio e poi l’applauso che scioglie la convulsione dell’attesa. I riflettori per una sera sono tutti puntati su Marco Travaglio. Il giornalista entra con il sorriso e la scioltezza di chi si trovi a portare avanti una tesi, già più volte dimostrata a se stesso nel corso degli anni e la cui veridicità è a tal punto manifesta da non essere necessari afflati retorici, tuttalpiù la lettura di fronte all’uditorio di una serie di articoli, prove nero su bianco che confermano quello che vuol ribadire.
Sì, perché Travaglio sa perfettamente che le fake news non sono nate con i grillini, tantomeno sono una piaga instillata dal governo Trump, né esistono cattivi o paladini della giustizia sebbene qualcuno si diverta ad alimentare così l’immaginario collettivo dell’opinione pubblica.
“Colleziono fake news da quando si chiamavano balle” dice il direttore del Fatto quotidiano, e intanto tira fuori il primo fascicolo di articoli e con dissacrante ironia comincia a smontare uno ad uno i titoli di celebri testate. Primo tra tutti il caso Brexit, i catastrofismi annunciati in vista del sì, e le previsioni campate in aria degli esperti. All’indomani dei risultati il capo degli analisti economici della banca dell’Inghilterra disse che “era dal 2008 che non ne azzeccavano una” e in Italia intanto titolavano “noi come meteorologici”.
Lo stesso per i dazi imputati a Trump, da lui a dire il vero solo confermati ma in realtà già approvati dell’amministrazione Obama. Per parlare di post-verità però, non c’è bisogno di spostarsi oltreoceano: basti pensare alla campagna referendaria degli ultimi mesi, il cui esito negativo veniva annunciato come un’apocalissi politica, con tanto di spread a mille, disoccupazione alle stelle e rischio di non poter riuscire in futuro a curare adeguatamente malattie come l’epatite C.Tuttavia i titoli più fantasiosi erano per il fronte del si che riportava dichiarazioni della Boschi, la quale definiva il referendum come ad un “argine per il terrorismo”.
E le perle della della carta stampata non finiscono qui: racconta Travaglio che molti giornalisti non avevano dimostrato idee molto chiare rispetto alle olimpiadi. Quando Roma era stata candidata nel 2012 sotto il governo Monti, nessun giornale si era opposto alla decisione, giudicando un impegno del genere una mossa azzardata per un paese che versava in forte crisi. Quando però nel 2016 la Raggi ha avanzato le medesime motivazioni i titoli più gettonati sono stati: “lo schiaffo a Roma” o “il movimento che non sorride mai”. Questo prima del sì allo stadio di Tor di valle, che li ha promossi da “politici tristi” a “palazzinari” responsabili della costruzione dell’eco mostro.
Dal caso Consip all’immigrazione senza dimenticare la famosa polizza, Travaglio svela le esagerazioni e la degenerazione di una stampa talvolta succube del potere che scaglia la pietra pur non essendo senza peccato e dimentica la propria funzione critica, non più a favore della società ma pro domo sua. Due ore di satira metagiornalistica che lascia tutti però con un sorriso amaro: “a volte basterebbe solo chiedere scusa” dice Travaglio, “ogni giornale fa errori e chiunque pubblica notizie ha gli strumenti per poterle smentire, sempre “.