“L’indecenza e la Forma”: la catabasi di Pier Paolo Pasolini

“E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.”
Uno screen enorme accoglie il pubblico che pian piano prende posto al Teatro Argentina. Proiettati nero su bianco sono i versi di Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini, tratto dalla raccolta Poesia in forma di rosa.
Un modo diretto, schietto e necessario a far immedesimare lo spettatore in questa prima nazionale di L’indecenza e la forma, altro spettacolo che il Teatro di Roma dedica al poeta corsaro.
A Francesca Benedetti il compito di essere e rappresentare la polifonia di emozioni, parole e sentimenti che raccontano il rapporto tra l’uomo Pasolini ed i suoi genitori. Una continua esibizione d’indecenza, una straziante discesa negli inferi pasoliniani, un continuo girovagare tra i gironi infernali descritti già in Salò. L’amore che il poeta ha per i suoi cari è un qualcosa di talmente viscerale che diviene distruttivo, addirittura violento in quella climax di evocazioni generate dal testo di Giuseppe Manfridi.
A tal proposito, il regista Marco Carniti afferma: “Si sa: nella vita e nell’opera di Pasolini l’indecenza e la forma coabitano, confliggono e si mischiano per virtù alchemica in perpetuo, condannando il loro Prospero a quella stanza della tortura da sempre assegnata ai grandi eretici di ogni epoca”. Ed in effetti L’indecenza della forma è esattamente la trasposizione carnale di immagini turpi, di una umanità martoriata, incompresa e mortalmente ferita. Il corpo nudo e pressoché privo di parola del poeta (interpretato da Sebastian Gimelli Morosini) diventa la testimonianza di un martirio, l’urlo muto di un uomo condannato ad essere solo.
L’uomo Pier Paolo annega nella melma denunciata dal suo Petrolio, si abbandona al vortice di pericolo generato dalla propria lungimiranza. La sua è una morte silenziosa, in una notte qualsiasi della traditrice borgata romana. Il paradosso che ci resta però è proprio quello di domandarsi, tutt’oggi: “Cosa avrebbe detto Pasolini? Cosa avrebbe pensato Pasolini?”.
Come per contrappasso però, il silenzio di quei giorni è esattamente lo stesso di adesso, in cui le domande non hanno risposte e la società intera è caduta negli stessi identici inferi.
Non resta che l’indecenza e la forma.
Il Teatro Argentina di Roma ha presentato
Pasolini nella stanza della tortura
di Giuseppe Manfridi
uno spettacolo di Marco Carniti
con Francesca Benedetti e Sebastian Gimelli Morosini
musiche di David Barittoni