Tosca, ha da passà ‘a nuttata

La storia è una bella storia: tre infermiere precarie, tre donne più o meno giovani che arrancano in una quotidianità fatta più di inciampi che di sogni infranti, si trovano improvvisamente sull’orlo del licenziamento per l’imminente chiusura della clinica. Costrette a fare i conti con una realtà peggiore delle proprie paure, trovano nell’irascibile e spigoloso Oscar, paziente impaziente quant’altri mai, allettato perenne dalla malattia e non più allettato dalla vita, lo stimolo e il pungolo per cercare di capovolgere un destino che sembra ormai segnato. Il tutto segnato da battibecchi, ribellioni e slanci generosi.
Insomma di spunti ce ne sono.
O ce ne sarebbero, non fosse che la recitazione del quartetto (cui si aggiunge, Pierre Bresolin, buon ultimo ma impeccabile nel suo pur breve passaggio) non riesce a decollare, si attacca molto letteralmente al testo, senza riuscire però a dargli fiato e volume, s’accontenta d’una comicità un po’ facile, dove la gag comica è un meccanismo che scatta troppo facile per poi fermarsi subito.
I dialoghi, che pure nel testo hanno vivacità e presa diretta, in scena mancano di ritmo, suonano stanchi, disallineati, raccontano la vita di Ivana, Anna e Linda come un mero catalogo di sfighe, familiari, anche frequenti nella nostra quotidianità, ma nulla più. Le emozioni, dove ci sono, sbiadiscono nel luogo comune, nel già sentito, nella chiacchiera da bar.
Anche Gabriella Silvestri, pur brava nel cercare di pilotare il terzetto femminile, tra la clinica in disarmo e la terrazza di Castel Sant’Angelo, finisce anche lei per passare quasi randomicamente da un registro all’altro, dal drammatico allo sberleffo romanesco, dalla solidarietà al qualunquismo.
Motore immobile dell’azione, deus ex-machina della rivolta (a chi? Al destino, cinico e baro? Alla globalizzazione? Al bieco capitalismo?) è Oscar, ex-ferroviere, ex-sindacalista, un ex anche nella vita, perché figli e famiglia lo hanno abbandonato: ma nonostante tutto non rinuncia a salvare il salvabile, è lui, quasi malvolentieri, a diventare il provocatore, l’innesco della ribellione.
Ma Pietro Longhi, forse guidato altrove – come le altre interpreti – da una regia sui generis, rimane rigido, legato, le sue battute e battutacce passano brusche e ruvide, vorrebbero scuotere (e scuoterci) ma sembrano solo le bizze gratuite e senza scopo, fuoriposto, d’un lunatico un po’ ignorante.
C’è qui, come in tutta la storia, un registro terra terra, fin troppo concreto e quasi greve, che si vorrebbe capovolgere nella passione, nella dignità, nella riconquista del futuro. Mancano però le emozioni, l’empatia, il senso di un vissuto genuino, e quindi il passaggio da un registro comico e un po’ sguaiato a quello lirico diventa artificioso, innaturale, e il salto non riesce, si resta a mezz’aria.
Le scenografie curate e coinvolgenti, anche se molto semplici, e i movimenti di scena veramente misurati ed efficaci di attrici e attori, rimangono però buona cornice d’un quadro d’assieme decisamente migliorabile.
“La notte della Tosca”, al Teatro Manfredi (Lido di Ostia) fino al 20 Novembre
Regia Silvio Giordani
Compagnia Teatro Artigiano
Con Pietro Longhi (Oscar), Gabriella Silvestri (Ivana), Annachiara Mantovani (Anna), Pierre Bresolin (vice questore), Alida Sacoor (Linda)