Duo Rezza-Mastrella all’Elfo Puccini, quando il teatro è opera d’arte

Di Antonio Rezza e del suo Teatro si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto: interprete e autore, insieme alla compagna Flavia Mastrella, di spettacoli cuciti sul suo corpo, la sua vocalità, i suoi mille volti, è amato dagli intellettuali più raffinati e da un vasto pubblico, in buona parte composto da giovani che durante i suoi spettacoli liberano risate “al limite”, senza filtri e censure così come chiede la sua comicità dall’inconfondibile e unica impronta, risate liberatorie e al contempo figlie di un certo sottile disagio.
Definire il teatro, o meglio l’opera del duo Rezza-Mastrella, non è cosa semplice e, tutto sommato, affatto necessaria e corretta : possiamo certamente parlare di ispirazioni, soprattutto all’arte contemporanea, di movimenti che hanno portato i due artisti a stringere un sodalizio che si basa sulla ricerca costante attorno al corpo e allo spazio, che nelle loro performance diventano tutt’uno, attorno a un volto che è “manifesto artistico-politico” che si muove e vive in un habitat disegnato dalla Mastrella , buchi in stoffe colorate dai quali si affacciano al mondo i personaggi di Rezza, “quadri di scena”, ambienti, sotto il segno del gioco.
In Bahamuth, spettacolo nato nel 2006 e riproposto al Teatro Elfo Puccini come terzo appuntamento all’interno di una “personale” dedicata alle ultime quattro opere dei due artisti, domina il minimalismo e l’ispirazione viene dai “giocattoli di mare” rinvenuti in spiaggia e “assemblati in concetti e onde di idee”: lo spazio creato è una scatola prospettica, aperta alla possibilità di essere abitata e vissuta – ora in forma di albergo, di discesa sciistica, di letto di morte, di orologio -dai personaggi paradossali, dal nanetto verde (che molto ricorda quel nano cantato da De André, “carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo”) che si prende gioco del pubblico, alla Signora Porfirio, esilarante tormentone assolutamente politically incorrect, al Signor Padrone Porfirio, al sindacalista arrendevole, al paraplegico, al cucù sfrattato dalla sua sede “naturale”, e avanti così, in una carrellata esilarante di situazioni-limite in nome di Bahamut, pesce della mitologia musulmana che regge il toro, che a sua volta regge la terra, sebbene questa definizione non esaurisca il significato di questa presenza che aleggia e non si vede come non si vedono molte cose che però ben si intuiscono, laddove la comprensione razionale cede il posto all’accettazione del gioco a scatole proposto da Rezza dove ogni passaggio in scena si fonde nell’altro momento successivo in un continuum che crea e distrugge al contempo, agito su piani e visioni diverse, dichiaratamente ispirati a Borges, dove la politica trova il suo posto, la provocazione sfora nella cattiveria bambinesca, lo sberleffo al potere si fa arma tagliente, affidata al suo corpo e al suo volto che si deformano per diventare messaggio.
Una performance, quella di Rezza, qui accompagnato dai bravi Ivan Bellavista e Giorgio Gerardi, che si estende anche agli applausi finali, momento di massima espressione di una viscerale instancabile e rinnovata energia, non solo perché, come disse in un’intervista, “l’attore stanco è penoso” ma soprattutto perché nelle sue performance “inizio e fine” sono solo parole vuote, ciò che vive, nasce, muore e si rigenera continuamente è il corpo e la vita stessa dell’attore con il suo richiamo incontenibile, irriverente, oltre ogni cliché, al quale è difficile restare indifferenti.
Aglaia Zannetti
12 marzo 2014