Sulla morte senza esagerare, al Teatro India

Nella splendida cittadella dell’ex fabbrica Mira Lanza, il tempo sembra essersi fermato ad un bivio. Da una parte la vita cittadina, con i suoi negozi, passanti, bar e locali notturni. Dall’altra, la fotografia di uno scheletro, un complesso industriale di una città che era e doveva essere; di cui il Gazometro ne rappresenta il guardiano più maestoso e fiero. In “Sulla morte senza esagerare di Wislawa Szymborska” la morte si trova in un limbo, una zona di passaggio tra due realtà. Proprio come la Roma industriale che ospita il teatro India.
Wislawa Szymborska è stata una poetessa polacca di fama internazionale. Nel 1996 vinse il premio Nobel per la letteratura, meritandosi a pieno titolo il posto tra le migliori e più influenti poetesse del secolo scorso. Lo spettacolo di teatro “Sulla morte senza esagerare”, scritto e diretto da Riccardo Pippa, ne riprende le caratteristiche poetiche: contraddittorio, retorico, semplice e ironico.
La scena si svolge tutta in un unico luogo; una panchina pubblica con accanto un lampione. Seduta ad attendere, un’entità antropomorfa dal viso mostruoso e indefinito. La vediamo sola, seduta sulla panchina. Ad interrompere la sua quiete, una serie di figure che entrano ed escono dalla scena. Sullo sfondo i versi della poesia vengono proiettati ad intervalli regolari.
“Occupata ad uccidere
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!”
I vivi imparano dai morti e viceversa, in questo mantra, la morte tenta di essere precisa e ligia nel suo lavoro. Eppure spesso fallisce, come uno stagista alle prime armi. Non comprende a pieno le sue vittime, come accompagnarle nell’aldilà e lui stesso viene beffato dalle anime di passaggio.
In “Sulla morte senza esagerare”, la morte è un caronte contemporaneo stanco, goffo, a tratti frustrato. Nel tragitto alcune anime si perdono, altre tornano indietro, altre ancora pagano più volte il biglietto senza mai arrivare a destinazione. Il lampione si accende e spegne frenetico, proprio come lo scorrere del tempo. Lo stesso tempo che sembra infinito per quell’uomo seduto sulla panchina, in attesa che il suo lavoro finisca.
Lo spettacolo omaggio alla Szymborska non necessita di parole, i suoi versi già parlano da soli. Assistiamo così a 55 minuti di mutismo, in cui i personaggi interagiscono attraverso gesti e musiche. Il tocco ironico della narrazione infonde leggerezza, giusto tramite per mantenere un buon contatto con il tema proposto. La morta non è maligna né spaventosa, ma umana. Perché umana è il suo opposto, la vita.
Nella sua umanità, vive un ampio spettro di emozioni, contraddizioni e prese di coscienza. Si evolve, impara e cresce, proprio come le sue vittime che percorrono la strada che un giorno, inevitabilmente, li porterà dall’oscura signora.
Il caronte esordiente, seduto in solitudine sulla panchina, non sarà lo stesso Caronte che vedremo nell’epilogo, dove un viaggio attende anche lui verso luoghi sconosciuti, in attesa di qualcun altro che prenderà il suo posto. Una “nuova” morte che dovrà ripetere il lavoro del suo predecessore. Una ripartenza che in fondo ognuno di noi desidera e auspica nel corso della sua vita, e quale miglior modo di ricordare questo obiettivo parlando della morte che ci aspetta. Si, ma senza esagerare.