Esercizi sull’abitare. Intervista al duo teatrale Bartolini/Baronio
Bisogna tornare nel mondo per poterlo tradurre. I due attori romani da tempo si interrogano sulle prospettive dell'essere umano e su quali spazi possiamo davvero chiamare casa.

«Siamo proprio all’incrocio dove Spike Lee ha girato Do the Right Thing, c’è un murales che lo ricorda». Abbiamo incontrato il duo teatrale Bartolini/Baronio la scorsa primavera, quando erano a New York per proseguire il loro progetto di ricerca Esercizi sull’abitare, un «non-luogo a metà strada tra l’esperienza teatrale, la ricerca antropologica, l’installazione artistica e la condivisione di saperi» per provare a dare risposta ad una domanda dai confini incerti: che cos’è casa?
A qualche mese da quell’intervista, il percorso di ricerca intrapreso dai due artisti, al secolo Tamara Bartolini e Michele Baronio, è stato confermato nel cartellone del prossimo Romaeuropa Festival che si terrà in autunno.
In queste due settimane, avete già delle risposte? Che cos’è casa?
«La domanda — risponde Tamara Bartolini — ce la stiamo ponendo dal 2016, dando una direzione poetica a tutti i nostri lavori a partire da Dove tutto è stato preso. Una domanda che ci siamo posti anche per un elemento biografico: in quell’anno è nata nostra figlia Tea e in qualche modo ci siamo ritrovati plasticamente di fronte a degli interrogativi che in realtà erano già dentro i nostri lavori, se li intendiamo come ragionamento sull’essere umano in relazione alla società.
Questa domanda portava con sé la questione delle rovine che ci sentiamo di abitare».
Prosegue Michele: «In maniera superficiale la domanda era proprio “dove mettiamo le radici? Siamo in affitto, nella precarietà più totale, ci serve una camera in più”. Dalla ricerca di questo spazio sono partiti una serie di ragionamenti.
Il nostro è un lavoro che parte dalle biografie, dai territori, dai cittadini e dalle cittadine. Partiamo sempre dalla storia scritta sulle persone, quindi sui nostri corpi.
Da lì poi è chiaro che il ritratto non è mai solo personale, è collettivo, universale. Come in Josefine — performance andata in scena durante la scorsa stagione del Teatro India a Roma — importante non è più l’individuo ma la definizione di una collettività che forse è anche l’unica risposta che in questo momento sento rispetto alle rovine».
L’idea di dividere in tre fasi il progetto era chiara da subito o vi siete accorti dopo che Esercizi sull’abitare doveva andare oltre?
«In realtà non è divisa in tre parti — racconta Baronio — è una fase che succede l’altra perché innestiamo un ragionamento a cui ne consegue sempre, necessariamente, un altro.
Dai 16,9 km della prima fase siamo passati a i 333 km della seconda, ora ne abbiamo aggiunta una terza perché a noi piace lavorare in maniera progettuale, è il processo che ci interessa.

Alla fase di ricerca poi segue un percorso di traduzione sulla scena, un ulteriore processo di condivisione ed esperienza con il pubblico.
Avevamo avuto una specie di prologo con un progetto chiamato Nove Lune durante il Kilowat Festival: nove abitanti a partire dalla questione dello sbarco sulla Luna e ragionare sul nostro abitare la Terra.»
Passando alla casa teatro, vorrei riprendere un dato in verità parecchio allarmante, circolato negli ultimi giorni dopo un’inchiesta di Report, andata in onda su Rai3.
Sono 428 i teatri chiusi in Italia. Storicamente il teatro è la culla di una civiltà, un luogo in cui, sin dai tempi di Pericle, si formava il concetto di società. Ma se il teatro è la casa in cui si dovrebbe formare la prima idea di vivere sociale, se decidiamo di abbandonare il concetto di condivisione, che tipo di società stiamo diventando?
«Già abbiamo fatto questo scatto — sostiene Michele — da dopo la Rivoluzione Industriale l’essere umano è stato messo all’angolo. Tra l’altro abbiamo vissuto una accelerazione grossa anche noi, come generazione rispetto all’interesse che può esserci verso il concetto di umanità».
Lo incalza Tamara: «Quanti spazi che erano occupanti ed erano l’anima culturale della città, ora li vediamo chiudere…guarda Roma!
Ogni chiusura è un delitto. Il teatro si dovrebbe interrogare su questa tendenza e sul fatto che in realtà qualsiasi performance è già possibile se c’è una relazione con una comunità che la sostiene, che la desidera fortemente, che, come la nostra topolina Josefine, non può fare a meno di guardare il mondo, di condividere il suo sguardo con altre persone.
Questo non significa che io non voglia preservare lo spazio fisico, in realtà importantissimo, però forse apparteniamo ad un tempo in cui diventa cruciale interrogarsi sul senso e sul valore dello spazio teatro.
E forse per questo motivo Josefine è un progetto che non è sganciato rispetto a un pensiero comune.»
Tornando proprio a Josefine, una performance in cui mi è sembrato cruciale il ragionamento attorno al ruolo dell’artista nella società. Un artista, con le domande che pone, con gli squarci nella tela della ragione che mette in atto, è più colui che ti allontana da casa o colui che invece ti fa riconciliare con casa?
«Bella questione! Per noi Josefine ha rappresentato proprio un grido, un modo per dire “usciamo fuori”. Forse bisogna tornare nel mondo per poterlo tradurre. Poi c’è anche il momento della solitudine necessario alla creazione ma senza relazione col mondo, senza sporcarsi le mani, noi non sentiamo più il senso. Io credo che Josefine apra le porte. Come dicevo ad un certo punto di Dove tutto è stato preso, “apriamo le finestre e facciamo entrare aria”. Josefine è una ventata d’aria in questo senso perché fa uscire da casa per capire cos’è casa fuori dalla casa. E poter ricostruire un’altra casa in maniera condivisa.»
Come del resto faceva anche la fotografa Vivian Maier, di cui avete raccontato nello spettacolo Tutt’intera. Avendo Maier una sorta di doppia vita, di fatto si andava a cercare casa da un’altra parte…
«Ci ho pensato tanto in questi giorni guardando New York. In qualche modo sì, lei ha trovato fuori qualcosa che probabilmente colmava i suoi buchi, le ombre che intercettava nelle sue foto.
Per noi è stato molto interessante lavorare a quello spettacolo, con una drammaturgia non nostra, tradotta da Attilio Scarpellini.
In Tutt’intera torna la necessità di tuffarsi tra la gente. La cosa incredibile di una città come New York è che le relazioni umane costruiscono una vera e propria mappa che si intreccia a quella che noi avevamo iniziato a costruire a Roma.
A fine prima tappa di Esercizi sull’abitare, con la traduzione dei 16,9 km al Teatro Quarticciolo, chiudevamo dicendo che per gli uccelli migratori casa è in realtà lo stesso movimento che li porta a spostarsi ciclicamente: il movimento stesso è casa. Questo movimento, che è la tensione di cui parla Josefine, una tensione dell’artista, è in realtà la tensione di ogni essere umano. E stando qui, intervistando anche figli o nipoti di immigrati italiani, ritorna un’ identità assolutamente fluida, quasi nomade, che non può essere rinchiusa in nessun tipo di architettura.