‘Fronte del porto’, la sconvolgente fusione tra teatro e cinema

Dal 3 al 15 dicembre al Teatro Argentina di Roma.
Fra le alte note del teatro di Roma giunge a sconvolgere le platee uno spettacolo di enorme spessore sociale, irrobustito da un cast di rarissima sensibilità artistica e da una regia coraggiosa e graffiante. Alessandro Gassmann conferma il suo sconfinato talento nei panni di regista teatrale, osando con coraggio e inscenando un’opera che supera i mutamenti del tempo che scorre e la conduce in un contesto estremamente attuale e nostrano. Il testo di Budd Shulberg, già indimenticato capolavoro cinematografico di Elia Kazan nel 1954, con protagonista Marlon Brando, qui viene sapientemente riscritto e adattato da Enrico Ianniello, il quale disegna la tragica e quanto mai reale condizione dei portuali napoletani negli anni 80. Un’epoca di profondi mutamenti all’interno della malavita organizzata partenopea, dove il porto era il fulcro centrale dal quale transitavano traffici illeciti di ogni sorta. Il contrabbando era radicato nel profondo, accrescendo a dismisura il potere dei grandi capi, i quali spadroneggiavano, stringendo nel palmo della mano le vite dei poveri manovali, vessati da un caporalato spietato e disumano. Le proteste sindacali naufragavano miseramente nella violenza e chi “cantava” presto o tardi veniva messo a tacere.
Daniele Russo è Francesco Gargiulo, un ex pugile di grandi prospettive obbligato dai legami familiari con il boss locale, Giggino Compare (Ernesto Lama), non solo a rinunciare ad una promettente carriera sportiva, ma a prendere parte alle reiterate prepotenze ai danni di amici e compagni di lavoro. In seguito all’assassinio del migliore amico Francesco comincerà a vivere il tormento di un rimorso inconsolabile; tale rimorso colliderà con l’omertà e il terrore di denunciare il cugino Giggino.
Il testo è concepito per un cast genuinamente partenopeo e le sfumature dialettali pressoché perfette donano allo spettacolo una naturalezza disarmante e drammatica. È proprio la drammaticità il centro di ogni cosa; dall’inizio alla fine non sono presenti momenti di respiro e ogni scena è un crescendo di rabbia, tensione e pathos. Il colpo d’occhio scenografico è essenziale per creare una mescolanza suntuosa tra il teatro e la settima arte. Gassmann riprende la struttura scenografica che ha reso magistrale Il Silenzio grande: la scena è costruita tra due proiettori, il primo, rivolto verso il fondale, ha come scopo quello di rievocare visivamente la Napoli dell’epoca, i colori della notte, l’azzurro del mare. Il secondo proiettore disegna su un telo calato tra il proscenio e il boccascena videografie che scandiscono i momenti più incisivi dello spettacolo.
Gli attori si trasformano in manovalanza in tutto e per tutto, spostando personalmente la scenografia tra una scena e l’altra e il linguaggio operaio prende vita in un avvicendarsi grida, imprecazioni e declinazioni tipiche dell’idioma partenopeo. Lo spettatore viene catapultato in una città di baracche e containers, un sottobosco di metallo e miseria dal quale il protagonista dovrà emergere. Le uniche zone franche sono rappresentate dalla chiesa del Carmine e dalle terrazze dei fatiscenti condomini; la prima rappresenta un simbolo di giustizia e forza, la seconda un inno alla libertà e all’amore. Sui tetti si è al di sopra di ogni cosa, si ammira la città cullata dal cielo azzurro, ma soprattutto cantano i cardellini. In questo spettacolo il cardellino incarna la massima espressione di purezza; una purezza tuttavia corrotta, poiché l’uccellino è docile, fragile, ma ingabbiato, esattamente come il personaggio di Gianluca. Egli vorrebbe spiccare il volo, cantare a squarciagola, ma le sbarre di una gabbia troppo stretta lo limitano nel cuore e nei sentimenti. L’uccello qui assume un’ambivalenza fondamentale, poiché in chiave popolare essere definito “cardellino” è fortemente dispregiativo. O’cardellin è qualcuno che per l’appunto “canta”, tradisce e denuncia i mali che affollano l’ambiente criminale. Al cardellino che alza troppo la voce le ali vengono spezzate e il suo canto muta in disperato lamento, il suo o quello di chi gli sta accanto. Il colore tragico del quale si tinge lo spettacolo dall’inizio alla fine è il corollario di un lavoro artistico sconvolgente. Daniele Russo da vita a un personaggio ricco di malinconia e desiderio di amare, affiancato da una squadra di attori di rarissimo talento. La bellezza sta nell’assistere a una messa in scena nella quale ogni interprete versa una goccia del proprio sangue, con l’unico scopo di rendere il tutto memorabile. Gli attori sono dei pesci che nuotano in un oceano familiare, che li mette a proprio agio, grazie alla lingua napoletana, alla voglia di donare il proprio contributo per il messaggio comune di libertà. L’elenco è lungo, ma ognuno dei dodici artisti è degno della massima stima che si possa offrire ad un attore: tra doppi e tripli ruoli, Lama che divampa di un’incontenibile energia, Emanuele Maria Basso che si divide tra Don Bartolomeo e il sostegno registico a Gassmann, Francesca De Nicolais estremamente reale e sofferente, quest’ultima incarna la passione e il fuoco dei quali erano intrise le donne di quell’ambiente.
Fronte del porto è un inno alla dignità, al valore e ai buoni sentimenti che scardinano il dolore e la prevaricazione. Gassmann porta in alto uno spettacolo tecnicamente moderno per raccontare un odio che prende forma e volto in ogni tempo e in ogni luogo. La dignità è qualcosa di sacro e per la quale è necessario combattere in ogni fase della propria esistenza affinché nessuno la estirpi.
Fronte del porto
di Budd Schulberg
uno spettacolo di Alessandro Gassmann
traduzione e adattamento Enrico Ianniello
con Daniele Russo, Emanuele Maria Basso, Antimo Casertano, Antonio D’Avino, Sergio Del Prete, Francesca De Nicolais, Vincenzo Esposito, Ernesto Lama, Daniele Marino, Biagio Musella, Pierluigi Tortora, Bruno Tràmice.
Scene Alessandro Gassmann – costumi Mariano Tufano – luci Marco Palmieri
videografie Marco Schiavoni – musiche Pivio e Aldo De Scalzi – sound designer Alessio Foglia
aiuto regia Emanuele Maria Basso
Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini