“L’onore perduto di Katharina Blum”, ovvero dei fatti e dei misfatti del diritto di cronaca
La recensione di L’onore perduto di Katharina Blum
Debutta all’Eliseo lo spettacolo tratto dal romanzo di Heinrich Boll (1974, “Die verlorene Ehre der Katharina Blum”, da cui anche un film dell’anno successivo, “Il caso Katharina Blum”, co-diretto da Margarethe von Trotta), per la regia di Franco Però.
In una scenografia davvero molto (troppo?) essenziale si muovono i personaggi di un piccolo dramma esistenziale, in bilico tra la cronaca familiare e la crocifissione mediatica (come diremmo oggi: ma nulla di nuovo sotto il sole).
Katharina, single di ritorno dopo un’infelice (e breve) matrimonio di paese, è già da qualche anno tornata libera di gestire la sua vita e i suoi affetti, ritrovando il suo equilibrio grazie anche all’affettuosa attenzione dei Blorna, benevola e illuminata coppia medio borghese, per cui lavora come governante.
Metodica e volonterosa, scrupolosa fino alla noia, ma soprattutto onesta quanto ingenua, incoraggiata dai suoi datori di lavoro – in partenza per una vacanza in montagna – decide di concedersi una serata di ballo, invitata ad una festa in casa della madrina. Là incontra per un caso fortuito Ludwig: segue reciproco colpo di fulmine e notte d’amore. Al risveglio lui si confessa ricercato, lei lo aiuta a fuggire, ma viene immediatamente fermata dalla polizia e lungamente interrogata, che la sospetta di complicità e favoreggiamento.
Katharina riuscirà a scagionarsi, ma la fuga di notizie dal commissariato (per trascuratezza, per “smuovere” il caso, per maligneria …) si trasforma rapidamente in un incubo senza scampo, in un susseguirsi di scoop sempre più scandalistici e sempre meno controllabili, travolgendo affetti e amicizie, coinvolte e sconvolte dalle presunte rivelazioni.
Anche se il meccanismo rappresentato risulta comprensibile, e anche familiare (pensiamo ai ‘mostri’ dei giorni nostri), le motivazioni dei personaggi in alcuni passaggi critici della vicenda – in primis le confidenze inopportune che il commissario fa al giornalista Totges – non sono né chiare, né chiarite (e qui si fa appello allo spettatore, che ci pensi lui a trovarne conto e ragione …), mentre il crescendo delle attenzioni persecutorie della stampa è reso in maniera un po’ forzata, affidato soprattutto alla narrazione della stessa Katharina e alle telefonate un po’ troppo istrioniche di Totges alla sua redazione.
Anche il tono della narrazione – con Katharina che è interprete ma anche voce narrante, alternando l’emozione del recitato al distacco e alla lucidità del racconto, quasi in terza persona – sembra un po’ confuso: da un lato queste gigantesche quinte mobili, di rete fina, quasi un velo steso sulle intelaiature, anonime, disumanizzanti. Dall’altro i dialoghi, che sono invece vivaci, caldi, a tratti sopra le righe, e per nulla surreali o dissociati, come invece sembrerebbero suggerire lo sfondo e il modo – a tratti convulso – con cui ci si muovono i protagonisti.
Il testo di Boll – qui nell’adattamento di Letizia Russo – non è certo facile, in equilibrio com’è tra la farsa e il dramma, senza rinunciare ad un uso corrosivo quanto efficace dell’ironia: si svelano i meccanismi occulti e clamorosi (negli effetti) delle dinamiche del giornalismo di massa, scandalistico, la capacità esplosiva di creare, a valanga, un’ondata dopo l’altra, il mostro da sbattere in prima pagina.
Anche se (si badi bene) nulla di ciò che viene scritto – e venduto ad un pubblico goloso di marciume – è letteralmente falso: è soltanto “interpretato”, fornendo ad un pubblico morboso, un quadro morboso di ciò che, in fondo, è realmente accaduto.
Al di là dei meriti specifici dell’una o l’altra interpretazione (davvero ottimo Emanuele Fortunati nel doppio ruolo – per un imprevisto – del Commissario Capo e di Alois, perfido sedicente amico e cliente dei Blorna, brava Elena Radonicich, meno convincente Peppino Mazzotta, decisamente sopra le righe), tra adattamento e regia qualcosa non ha funzionato.
Forse perché la piéce manca di equilibrio, o meglio, di squilibrio, di tensione: non trova appieno un suo tono, tra i cattivi – un po’ troppo cattivi, un po’ sbozzati, tirati via – e la protagonista, preda non si sa più se della sua ingenuità o di un sistema manipolatorio (insensato e ottuso) che trova le sue vittime dove può e le divora per quel che può.
E quindi la morte di Toges per mano di Katahrina, che chiude il cerchio della storia, in realtà appare insensata, quasi meccanica, d’obbligo: il gesto di Katharina non sembra motivato né dalla tensione, dalla disperazione della vicenda, né da un’analisi lucida e coraggiosa dell’ingranaggio che l’ha stritolata, e – semplicemente – non trova collocazione. Tant’è ch e all’omicidio, e all’arresto di Katharina segue, un po’ posticcia, la breve scena della visita a lei carcerata da parte del suo vecchio datore di lavoro, un avvocato Blorna ormai caduto in disgrazia e a suo volta disperato.
In sintesi: testo molto bello (e impegnativo), alcune interpretazioni degne di nota, ma in generale resta la sensazione di un ‘colpo’ mancato.
L’onore perduto di Katharina Blum
Regia: Franco Però
Interpreti: Elena Radonicich, Peppino Mazzotta, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi
Al Teatro Eliseo dal 3 al 15 dicembre