‘Il fu Mattia Pascal’ al Teatro Quirino fino al 18 novembre

“ – Io mi chiamo Mattia Pascal.
– Grazie, caro. Questo lo so.
– E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:
– Io mi chiamo Mattia Pascal.”
Mattia Pascal, Adriano Meis, il redivivo Mattia Pascal, un personaggio scisso in tre identità, tre maschere che nascondono una personalità frantumata, incapace di definirsi e trovare spazio nel mondo. Al Teatro Quirino di Roma fino al 18 novembre 2018 è in scena Il fu Mattia Pascal, una delle opere pirandelliane più conosciute e amate di sempre. Per la regia di Guglielmo Ferro, con Daniele Pecci, Rosario Coppolino e Maria Rosaria Carli.
Mattia Pascal dato morto per errore nel paesino natale di Miragno, decide di lasciarsi alle spalle la propria vita, piena di debiti e insoddisfazioni. Ottenuta una certa somma di denaro con la vittoria a un casinò, decide di partire per Roma. Sceglie di chiamarsi Adriano Meis, ma non ha documenti né cari. La sua libertà non è condivisibile, egli non esiste. Riprende allora la sua vecchia identità, ma il suo ritorno non stupisce nessuno, neppure la moglie che ormai si è risposata. È proprio questo l’abito della morte: essere dimenticati.
Si apre il sipario. Il redivivo Mattia Pascal (Daniele Pecci) e Don Eligio (Rosario Coppolini), sono intenti a catalogare alcuni libri nell’impolverata biblioteca del Boccamazza. La scena è immediatamente inquinata da apparizioni di personaggi e ricordi del protagonista. È proprio lui a narrarci le vicende, con una focalizzazione zero. Si muove ansioso sul palco, afflitto da rimorsi e sensi di colpa. Decide di raccogliere per iscritto le sue memorie, per esorcizzare il suo dolore e perché servano da monito agli altri, che i libri non sono solo una raccolta di nozioni e dettagli narrativi insignificanti, ma uno strumento utile alla comprensione della realtà che ci circonda. Lo spettatore diviene un lettore, grazie all’uso scenografico di scaffali mobili che aprono e chiudono ogni sequenza, come un susseguirsi di pagine di un libro. Una scelta che permette anche di dar ritmo allo spettacolo, senza interromperlo o rallentarlo con l’uso del “buio”. Guglielmo Ferro non tradisce l’opera pirandelliana, ma anzi ci regala un adattamento fedele e coinvolgente, grazie anche all’intensa e credibile interpretazione degli attori, tra i quali spicca Daniele Pecci, capace d’indossare le molteplici maschere dell’eroe negativo pirandelliano e ripercorrere tra sogno e realtà la sua presa di coscienza: ogni libertà personale non può svincolarsi dal contesto sociale, poiché è tale proprio nella misura in cui gli altri ce la riconoscono.
“Folle! Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici?”