Barry Lyndon – Il creatore di sogni

Tra sogno, mito e leggenda
Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali.
L’epopea di Rodman Barry Lyndon non si spegne tre secoli or sono, bensì solca i cieli della storia, vagando attraverso le epoche, trovando nuova linfa nella moltitudine di espressioni artistiche. Dalla penna d’oca di William Makepeace Thackeray alla pellicole di Kubrick del 1975, fino ad incantare e persuadere il desiderio di Giancarlo Sepe che ne traspone sul palcoscenico le memorie.
La prima romana al sontuoso e venerabilissimo Teatro Argentina schiude dunque il sipario sulla travagliata e controversa vita dell’irlandese e sul racconto di come questi sia divenuto un nobiluomo dell’aristocrazia inglese, acquisendo il nome della famiglia Lyndon. Il protagonista (Mauro Brentel Bernardi) si fa narratore, guidando il pubblico attraverso gli anni della sua esistenza.
Il racconto si apre nella vecchia Irlanda settecentesca, in cui Barry è costretto alla fuga in seguito a un duello con un ufficiale inglese. Squattrinato e alla deriva Barry si arruola come volontario tra i ranghi delle giubbe rosse, dove il suo temperamento e il suo estro gli varranno la compiacenza dei commilitoni e degli ufficiali che lo spediranno in prima linea. Qui egli salverà la vita ad un alto ufficiale che per ricompensarlo gli affida un incarico minore, che prevede di entrare nelle grazie di un noto giocatore d’azzardo, tal Chevailer de Balibari, sospettato di essere una spia al soldo dell’Austria. Barry non potrà fare a meno di aprirsi totalmente con l’uomo, dopo aver scoperto che come lui anche lo Chevalier è in realtà un irlandese in esilio. Tra i due nasce una profonda amicizia, che aprirà all’ex soldato le porte del gioco d’azzardo. In questi anni, tra passioni, duelli e un inimitabile fascino, Barry attira a sé l’interesse dell’infelice Lady Lyndon, in sposa a Sir Charles Reginald Lyndon, un uomo ricco e malato. Dopo la dipartita di Sir Reginald, Barry sposa la vedova Lyndon. I due trascorrono anni felici, nei quali la donna da alla luce un bambino, Bryan. Col tempo la passione appassisce e matura l’astio tra Barry e il figliastro, che dopo anni di continue tensioni costringerà Barry, nel frattempo divenuto un Lyndon ufficialmente, all’esilio finale.
Lo spettacolo assume i toni di un viaggio onirico, a tratti illusorio, quasi confusionario; con giochi di luci e ombre e una scenografia altamente evocativa. I personaggi diventano pedine quasi incontrollabili, delle mine vaganti al servizio di un racconto senza requie, come lo è la vita del protagonista. Le ombre celano e al tempo stesso rigettano sagome umane e cartonati. Gli audaci tagli di luce rendono a tratti difficile discernere gli uni dagli altri. In scena ben dodici attori; un aspetto importantissimo e fondamentale, che premia le scelte di Sepe, grazie anche a un immenso lavoro fisico da parte dei numerosi interpreti. Ciò a cui si assiste è un fluido intreccio di corpo e parola, di danza e presenza scenica, grazie ai quali i grandi temi della narrazione possono affiorare ed essere comunicati alla platea. Amore, giustizia, coraggio, smarrimento; sono solo alcuni degli elementi che vanno a formare la miscela di uno spettacolo raffinato e non adatto a tutti. Attori e attrici si dilettano in virtuosi giochi di voce e di movimento. La recitazione è stilisticamente antiquata, come si confà ad un’opera di un tempo ormai andato. I toni quasi sopra le righe, in alcune tinte manieristici, trovano paradossalmente terreno fertile in un contesto che lo consente e lo giustifica. Ecco quindi che lo Chevalier interpretato dal brillante Pino Tufillaro assume le sfumature di un Montfleury da taverna, dedito ai bagordi e al gioco d’azzardo. Le infinite partiture di movimento corali tingono la scena di eleganti affreschi umani settecenteschi e non solo. La scena di Barry e de Balibari al tavolo da gioco sembra omaggiare le opere del seicentesco Caravaggio, in un gioco di luci, penombre e volti sagomati che guizzano tra le fioche luci delle candele. In questo stesso contesto si respira l’atmosfera cinematografica di Amadeus, in cui Mozart è intento a sollazzare amici e avventori in raffinati esercizi musicali.

Lo spettacolo è intriso di simbolismi sulla vita e la morte, sulle scelte da compiere e sull’insondabilità della natura umana.
Interessante la scena della battaglia in cui gli attori muovono delle sagome di cartone a forma di soldati, anziché utilizzare gli attori stessi, quasi come a voler suggerire come in guerra ci si spogli della propria umanità e si diventi fantocci mandati al macello.
Bernardi dà vita a un Barry Lyndon appassionato, audace, differente da quello cinematografico di Kubrick. Sembra quasi che il personaggio non esca sconfitto dall’esilio finale, ma che lo accetti con dignità e quindi termini il suo racconto da vittorioso. Un precursore dell’eroe romantico, fiero della propria individualità. Eppure questo Barry Lyndon è decisamente umano, dall’anima inquieta e dal carattere oscuro. I monologhi infiniti (alle volte letteralmente) sono un concentrato di esaltazione del proprio coraggio, del proprio orgoglio e anche dei propri rimpianti.
Le voci di dodici attori sfumano tra le note di un comparto musicale straordinariamente ricercato e appropriato e lo spettacolo al suo atto finale lascia pienamente soddisfatti e si conclude sulle note di Johnny I Hardly Knew Ye. Anche quest’ultima scelta nasconde una profonda dietrologia. Lo spettacolo che per un’ora e trenta ha raccontato di un’esistenza sregolata, galleggiando costantemente sulle acque acide della guerra dei sette anni, si chiude con un brano della tradizione irlandese basato sulla pace e il rifiuto del conflitto armato. L’ultimo tocco di fino di un regista che regala al pubblico un ennesimo lavoro ottimamente confezionato.
Lo spettacolo sarà in scena al teatro Argentina di Roma fino al 4 Novembre.
BARRY LYNDON
(Il creatore di sogni)
liberamente tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray
riduzione teatrale e regia di Giancarlo Sep
con Massimiliano Auci, Sonia Bertin, Mauro Brentel Bernardi, Gisella Cesari
Silvia Como, Tatiana Dessi, Vladimir Randazzo, Federica Stefanelli
Giovanni Tacchella, Guido Targetti, Pino Tufillaro, Gianmarco Vettori
foto di Salvatore Pastore
scenografie e costumi Carlo De Marino
muische a cura di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team
luci di Guido Pizzuti
orari spettacolo
prima ore 21.00
martedì e venerdì ore 21.00
mercoledì e sabato ore 19.00
giovedì e domenica ore 17.00
lunedì riposo
durata 1 ora e 30′ senza intervallo
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro La Comunità 1972