Qualcuno volò sul nido del cuculo al Teatro Carignano di Torino

Ci sono alcune storie che non si possono raccontare: le si deve vivere in prima persona, perché attraverso gli occhi e le parole altrui non si possono percepire le stesse vibrazioni.
Ci sono invece quei racconti che esistono, vivono e respirano proprio grazie all’idea nata nella mente di una persona, che la fa diventare realtà attraverso un romanzo, un film o perché no, anche uno spettacolo di teatro. Se poi capita che questa narrazione si presenti in tutte e tre le forme sopra citate, allora non resta altro da fare che provare a godersela in tutte le sue versioni.
Questo capita ad esempio con il libro “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, dello scrittore Ken Kasey, dal quale è stato tratto l’omonimo e splendido film, con grandi protagonisti come Danny DeVito e Jack Nicholson. Mancava solo la trasposizione teatrale, ed è dunque arrivato Alessandro Gassman che ha preso i dialoghi, i luoghi, i personaggi e li ha trasferiti su di un palcoscenico, ottenendo una rappresentazione sublime ed emozionante.
Non siamo nell’Oregon, ma veniamo catapultati nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa: corre l’anno 1982 e davanti ai nostri occhi si presentano subito i protagonisti di questa struttura, ognuno più particolare dell’altro e potenzialmente meno pazzo dell’altro. C’è Fulvietto, un ragazzo magro e balbuziente completamente succube delle religione e della propria madre; poi c’è Ramon, un omone enorme proveniente dal Sud America che non parla, non sente e non capisce (apparentemente) e sembra terrorizzato dalla sua stessa mole imponente. Insieme a loro arriva un nuovo paziente: Dario Denise, napoletano ed eccentrico, una vera sagoma, pieno di energie e di parole, ma soprattutto e prima di qualsiasi cosa, è un paziente.
Una ventata di aria fresca all’interno di un manicomio dominato dalla figura della direttrice, Suor Lucia, una donna dal pugno di ferro e gli occhi di ghiaccio, inflessibile per quello che riguarda il rispetto delle regole all’interno della struttura tanto quanto dura e vendicativa sui suoi pazienti. Dario, purché fintamente folle, rimane invischiato in un turbinio di psicofarmaci, pazienti “cronici” che non vedono mai la luce del sole, punizioni inflitte per la minima risposta sbagliata, elettroshock e lobotomie.
Di manicomi e ospedali psichiatrici ci hanno parlato tutti quanti, dalla notte dei tempi: non ultimi, anche gli sceneggiatori Ryan Murphy e Brad Falchuk con la loro serie TV “American Horror Story: Asylum”. Far però trasparire gli orrori che dentro queste strutture erano all’ordine del giorno non è affatto una missione semplice, sempre considerando il fatto che siamo su di un palco e che anche la scenografia deve essere di impatto: risultato pienamente ottenuto, grazie all’utilizzo di una sottilissima zanzariera sul palcoscenico, che divide / non divide gli sceneggiatori dalle scorribande dei pazienti all’interno dell’istituto e che spesso riescono ad essere talmente spontanei da far scappare una risata.
Quest’ultima rimane però amara, perché nel personaggio di Ramon ci rivediamo tutti quanti: lui afferma di essere troppo piccolo per il mondo che sta fuori, personificazione di quella paura che attanaglia qualsiasi persona, perché tutto quello che sta all’esterno ci spaventa e grandi o piccoli che siamo, ne risultiamo terrorizzati.
E come Ramon, che prende coraggio e salta la parete, anche noi ad un certo punto della nostra vita prendiamo fiato, con forza e determinazione e facciamo quel salto che ci porta al di là della barricata, che ci fa entrare in una nuova realtà che se dal di fuori faceva così tanta paura, compiuto il salto il sorriso e le lacrime insieme riempiono il nostro viso.
Come succede anche alla fine di questo spettacolo, che riesce a commuovere per la sua potenza dirompente e per la scelta di attori non bravi, ma bravissimi, ognuno nel suo personaggio.
Rebecca Cauda