I frammenti underground della Capitale
Dreki - Fiori di cemento
30 Giugno 2023

I frammenti underground della Capitale

di Gianluca Vignola

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Della città di Roma si è detto tanto e scritto altrettanto. Forse troppo. E data la sua sconfinata estensione, chi si avvicina alla Capitale lo fa irrimediabilmente con uno spirito cartografico.
Che si tratti di Romanzo criminale, di Suburra o dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, la città tende a entrare nelle viscere della storia imponendo la sua geografia e la sua relativa toponomastica. 

«Il delitto del Collatino», «le migliori osterie di Trastevere», «i film girati a piazza Farnese», «il Tossico della Romanina»: impossibile sfuggire alla tentazione di catalogare la città e rifugiarsi nell’illusione di saperla leggere, comprendere e quindi governare.    

Ma la mappa, si sa, non è mai il territorio. Così come l’aneddoto, se estrapolato da un contesto, non può restituire in toto lo spirito di un luogo. 

«Te ce pensi che nun t’ho mai vista tutta quanta», dice Noyz Narcoz in uno degli ultimi singoli dedicati alla capitale (la canzone in questione è Roma, nell’ultimo disco di Gazzelle).

Chi si confronta con Roma deve per forza di cose sapere che va a scontrarsi con una annunciata mancanza. Impossibile essere esaustivi quando si vuole raccontare la città.
Allora è forse anche questo uno dei motivi che spingono i più a confrontarsi con delle mappe tematiche che ogni volta la raccontano da un punto di vista differente. 

Leggendo il catalogo della mostra Mario Appignani Cavallo Pazzo – Frammenti di una vita underground (a cura di Valerio M. Trapasso) ci viene in mente che una mappa vorremmo realizzarla anche noi. Magari qualcosa che provi, se non a tracciare, almeno a raccontare lo spirito della città. 

Magari una mappa che racconti gli «Sconosciuti da leggenda di una piccola Roma», per dirla come Stefano Ciavatta in uno dei contributi pubblicati nel pamphlet.
Perché effettivamente manca una mappa dei culti metropolitani, di ciò che per Ugo Borghetti della Lovegang è il vero “classico”, e cioè ciò che è quotidiano, quasi banale ma tremendamente terreno, reale, viscerale.

Manca «la necessità di ricostruire dei culti metropolitani partendo da tasselli sparsi, smozzicati, raccattati qua e là: cose labili e improvvise certezze, tracce camuffate da underground, tracce di gente in cerca di una scena a ogni costo». Come Appignani, arcinoto disturbatore e disvelatore di realtà precostituite, anche la nostra mappa vuole aggirarsi per le strade della città con lo spirito contestatore di un indiano metropolitano.

Perché la mappa non sarà il territorio, ma un luogo, se lo vuoi dominare, devi sapere almeno come raccontarlo.