GIANNI VERSACE: quando la moda si tinse di nero

Roma, 15 luglio 1997. Quella mattina, eravamo alle sfilate romane su al Pincio. Era il giorno precedente la serata finale che si sarebbe tenuta sulla scalinata di Piazza di Spagna. Ma un grosso Moloch sembrava essere in agguato dietro il palcoscenico di quel mondo rutilante.
Era appena terminata la briosa passerella della stilista padovana Rosy Garbo, quando qualcuno fece irruzione nel back stage gremito di giornalisti e fotografi. La notizia rimbalzò tra i presenti quasi a fatica, forse il caldo asfissiante sotto i tendoni, forse l’atmosfera rarefatta di quelle occasioni dove si perde il contatto con la realtà. Non si riusciva a capire cosa fosse accaduto.
“Versace è stato assassinato stamattina a Miami!”. La frase concitata, così pesante, così aggressiva, cominciava a prendere corpo, a farsi largo da un gruppetto all’altro nel back stage. Sconcerto, ondeggiare di teste, rincorrersi di domande, sguardi increduli. “Come, chi è stato, perché,… non è possibile!”. Vedevi i colleghi anziani della stampa estera appartarsi coi loro cellulari (i primi ingombranti apparecchi), vedevi altri correre ai telefoni della sala stampa. E gli abiti delle indossatrici, che ancora non avevano fatto in tempo a cambiarsi per la sfilata successiva, afflosciarsi come palloncini punti da un calabrone, spegnersi i sorrisi, spegnersi i riflettori accecanti. E tutto intorno si avvolse del colore-non colore di un thriller.
Perché proprio durante le sfilate romane? In quel binomio moda-cinema, sembrava la narrazione di un remake alla Hitchcock autorealizzatosi senza regia, a ricordare le morti premature di giovani stilisti come Coveri (1990) e Moschino (1994), poi l’omicidio di Gucci (1995) che tanto fece parlare la cronaca nera del tempo: morti avvenute in diverse circostanze, ma legate da un filo sottilmente crudele.
E veniva subito alla mente Naomi Campbell, la bellissima modella prediletta da Gianni Versace, quando l’inverno precedente sfilò a Parigi puntando una pistola minacciosa ai fotografi. E in quell’altra passerella, con un abito da sposa-crocerossina stranamente cosparso di croci. Segni premonitori, in cui la scelta provocatoria del grande stilista sembrava ricadergli addosso come un boomerang. Erano questi gli inquietanti rumors che circolarono allora negli ambienti dell’Alta Moda.
Andrew Cunanan, il serial killer ricercato dall’FBI
Figura assai controversa, Andrew Cunanan fu accusato dell’omicidio dello stilista italiano. Oggi,a distanza di diciannove anni, qualcuno cerca di riaprire il caso alla ricostruzione di certe verità allora non ben chiarite in merito al “supposto” suicidio di Cunanan avvenuto il 23 luglio 1997, otto giorni dopo la morte dello stilista. Ma vediamo in sintesi chi era Cunanan e perché figurava come “fuggitivo n. 449 nella lista FBI dei ricercati più pericolosi degli Stati Uniti”.
Giovane molto bello, nato a San Diego nel 1969 da madre americana e padre filippino, Andrew frequentò le scuole più esclusive della California diplomandosi con lode in materie umanistiche. Amava esprimere la sua vera natura in maniera già troppo audace in quegli anni lontani dagli atteggiamenti provocatori del cosiddetto “orgoglio gay”. Ma ciò che preoccupava la madre era il suo temperamento molto aggressivo già nella fase assai giovanile, quando fu malmenata e ferita gravemente al momento della confessione del figlio in merito alla sua omosessualità. In realtà, Andrew era un soggetto psicopatico, con forti disturbi della personalità.
Ben presto si dedicò alla prostituzione, diventando un gigolò d’alto bordo. Dedito all’alcol e alle droghe, che spacciava nei suoi ambienti, e abituato ad un tenore di vita lussuoso, circolava con macchine fuoriserie e abiti costosi, frutto delle sue prestazioni – anche di tipo sado-maso – con uomini d’affari molto ricchi Stranamente, tutto si consumò negli ultimi tre mesi della sua esistenza, quando la psiche già tarata e poi bruciata dall’eroina lo portò a compiere ben cinque delitti nei confronti dei suoi partner occasionali.

Quel 15 luglio 1997 Gianni Versace fu freddato con una calibro 40 all’ingresso della sua lussuosa Villa Casuarina da Andrew Cunanan. Il 23 luglio successivo lo stesso Cunanan, in circostanze del tutto accidentali, fu trovato orrendo cadavere – ucciso sempre da una calibro 40 – dentro una “house boat”, una casa galleggiante sul lungomare di Miami, di proprietà di un tale invischiato in affari poco puliti nell’ambiente di Las Vegas, resosi irreperibile. Questi i fatti nudi e crudi, che ancora destano nei media gli interrogativi più inquietanti, messi a tacere dalla polizia americana sul perché Cunanan non avesse seguitato la sua fuga dopo l’omicidio di Versace. Non solo, il suo corpo venne sbrigativamente cremato.
Restano ancora in piedi mille domande sulle motivazioni psicologiche che spinsero Cunanan ad uccidere lo stilista italiano, forse una punizione verso se stesso in un’inconscio transfert, quello di far sparire un’icona gay nella quale si riconosceva. Ma quante più indiscrezioni riaffiorate nel tempo – respinte dalla famiglia Versace – dove passioni e interessi economici s’intrecciarono in quel mondo tanto fantastico dell’alta moda.
Gianni l’innovatore
Resta l’ uomo, l’indimenticato Gianni Versace, la bonomia del suo sguardo. “Un abito deve far pensare, deve rappresentare qualcosa che fa sognare” – disse una volta. Ed il sogno era per lui raccontare negli abiti i suoi contrasti interiori, realizzando in quei capi la dualità tra l’ amore per il classico e l’avventura del nuovo, accostando al rigore formale l’eccesso glamour di un tessuto tecnologico. La sua scomparsa significò la perdita di uno spirito innovatore, poiché egli nutriva in cuor suo di voler uscire dal sistema tradizionale delle sfilate, voleva delle cose diverse che rompessero la ritualità di quelle manifestazioni. Forse rendere vivo quel rapporto statico tra spettatori e passerella, il rapporto ieratico del creatore verso il fruitore.
Voleva fare questi cambiamenti che nessuno aveva avuto il coraggio di fare. Ma non ne ebbe il tempo.