Il 20 novembre 1910 moriva Lev Tolstòj, scrittore irrequieto

Il 20 novembre 1910 (7 novembre per il calendario giuliano) moriva Lev Nikolàevič Tolstòj, uno dei più grandi scrittori e pensatori russi dell’Ottocento, autore di «Guerra e pace» e «Anna Karenina», che nella sua lunga vita durata ottantadue anni è stato anche attivista sociale russo, scrittore di lettere e saggi filosofici, pedagogici e religiosi che hanno influenzato molti movimenti non violenti dei primi del Novecento, tra cui quello del Mahatma Gandhi.
Per delineare brevemente la sua vita ci sono le sue parole: «Chi sono io? Uno dei quattro figli di un tenente colonnello in pensione, rimasto orfano a sette anni, allevato da donne e da estranei e che, senza aver ricevuto alcuna educazione mondana né intellettuale, a diciassette anni è entrato nel mondo». Ancora più dettagliata la descrizione di sé fatta in tarda età che lo vede dividere la sua vita in quattro periodi: un «primo tempo poetico, meraviglioso, innocente, radioso dell’infanzia fino ai quattordici anni»; poi «quei venti anni orribili di grossolana depravazione al servizio dell’orgoglio, della vanità e soprattutto del vizio»; a seguire il terzo periodo di diciotto anni «che va dal matrimonio fino alla mia rinascita spirituale: il mondo potrebbe anche qualificarlo come morale, perché in quei diciotto anni ho condotto una vita familiare onesta e regolata, senza cedere a nessuno dei vizi che l’opinione pubblica condanna. Tutti i miei interessi però erano limitati alle preoccupazioni egoistiche per la mia famiglia, il benessere, il successo letterario e tutte le soddisfazioni personali»; infine il quarto periodo «è quello che sto vivendo adesso, dopo la mia rigenerazione spirituale». Sono gli anni che vanno dalla fine del 1870 agli inizi del 1880 che lo vedono avvicinarsi al Cristianesimo in seguito ad una tormentata crisi di scrittore (iniziata già durante la stesura di «Anna Karenina»), di valori e spirituale. Gli scritti di quei giorni, saggi e racconti autobiografici, sono il riflesso di questa conversione. Nella «Confessione» parlerà di una concomitante profonda depressione che lo stava portando al suicidio, superata grazie all’idea di una religione vissuta con umiltà e semplicità insieme al popolo, sempre più vicina a idee pacifiste basate sull’amore e il perdono. Stile di vita, quello sobrio e povero di non possedere nulla e di non mangiare più carne, che gli procura uno straziante ed infinito conflitto con la moglie Sof’ja e i figli maschi, contrari a ciò che per loro era solo folle e incomprensibile. Idee che gli costano persino la scomunica, nel febbraio 1901 da parte del Santo Sinodo della chiesa orientale, e la diffidenza dei vertici politici russi che lo considerano fastidioso. Di fronte alla Rivoluzione russa del 1905 infatti per Tolstòj «c’è una sola cosa da fare: placare l’ostilità, senza parteggiare per nessuno, distogliere la gente dalla lotta e dall’odio perché tutto questo sa di sangue».
Il suo desiderio di lasciare tutto per dedicare totalmente la vita a Cristo, seguendone l’esempio, prende corpo nel 1910, quando ha ormai superato la soglia degli ottant’anni. Abbandona casa e famiglia spinto dai continui litigi casalinghi, affidando la sua fuga in incognito a treni di terza classe, accompagnato dal medico personale e amico fidato Makovitskij. Queste quanto lasciato scritto per la moglie: « Ti ringrazio per i quarantotto anni di vita onesta che hai passato con me e ti prego di perdonarmi tutti i torti che ho avuto verso di te, come io ti perdono, con tutta l’anima, quelli che tu hai avuto nei miei riguardi». Ma la fuga dura poco perché a causa del freddo e della vecchiaia lo scrittore si ammala gravemente di polmonite ed è costretto a fermarsi nella stazioncina di Astapovo, un piccolissimo villaggio sperduto nell’immenso impero russo che nel giro di poche ore si trasformerà nel centro del mondo. Familiari (tra cui la moglie che potrà vederlo solo quando prossimo alla morte e privo di conoscenza), amici, giornalisti, fotografi e cineoperatori che accorrono e che per sei giorni rimangono con il fiato sospeso, come il resto del mondo, in quello che ormai da evento privato si è trasformato in evento pubblico, una vera e propria morte in diretta. Le sue ultime parole furono: «Svignarsela! Bisogna svignarsela!» e «la verità… io amo tanto… come loro». Così Boris Pasternak descrive lo scrittore sul letto di morte: «In un angolo non giaceva una montagna, ma un vecchietto raggrinzito, uno di quei vecchi creati da Tolstòj, da lui descritti e fatti conoscere a decine nelle sue pagine. Tutt’intorno crescevano giovani abeti. Il sole al tramonto segnava la camera con quattro fasci di luce obliqui». La sepoltura avviene seguendo le sue indicazioni: nei pressi della sua casa, con una tomba semplicissima, un cumulo di terra e la sola erba, senza croce, senza nome, sull’orlo di un piccolo burrone. Questo il racconto della figlia Tatiana: «Sapete perché mio padre è seppellito ai piedi di un poggio, all’ombra di vecchie querce, nella foresta di Jasnaja Poljana? Perché quel luogo era legato ad un ricordo. Il maggiore dei figli Tolstòj, Nikolaj, aveva confidato di avere interrato in un angolo della foresta un bastoncino verde sul quale c’era scritta una formula magica. Chi avesse scoperto il bastone e se ne fosse impossessato, avrebbe avuto il potere di rendere felici tutti gli uomini. L’odio, la guerra, le malattie, i dolori, sarebbero scomparsi dalla faccia della terra». Lui che febbricitante, in fin di vita, aveva dettato alla figlia Aleksandra gli ultimi pensieri per i suoi «Diari», pensieri che parlano dell’amore come unico tramite per legare la propria vita con le vite altrui, e «quanto più grande è l’amore, tanto più l’uomo manifesta Dio, e tanto più esiste veramente» perché «noi moriamo soltanto quando non riusciamo a mettere radici in altri».