9 novembre 1989 — 9 novembre 2014: per non dimenticare il «Muro di Berlino»
BERLINO — Sono passati venticinque anni e Berlino era pronta per festeggiare la caduta del «Muro» che per ventotto anni ha diviso la città e il mondo intero: est e ovest. Il motto era il «coraggio verso la libertà», una libertà simboleggiata dalle migliaia di palloncini bianchi e luminosi posizionati lungo tutto il confine di quella ferita di filo spinato fatta in una notte, in un lontano 13 agosto 1961, centocinquantacinque chilometri, quarantatré dei quali attraversavano la città, pian piano diventati prima mattoni e poi cemento invalicabili: una doppia barriera che racchiudeva una lingua di terreno tra i quindici e i centocinquanta metri chiamata «striscia della morte», pattugliata giorno e notte da soldati e cani ammaestrati, con oltre trecento torri di sorveglianza disseminate lungo il percorso.
Una notte per dividere, una notte per unire, una notte per ricordare. Ottomila palloncini accesi lungo l’ex tracciato centrale del muro, ognuno affidato ad un padrino, liberati nel cielo per rievocare la fine della guerra fredda. E a guardare la Porta di Brandeburgo, inondata da due milioni di persone, il cielo sopra Berlino punteggiato da queste stelle di elio, con la scritta «Freiheit» che compare sulle note dell’Inno alla gioia, come non pensare a quel giorno che ha unito sotto lo stesso cielo ciò che l’uomo aveva diviso? Una divisione nata per non fare entrare la contaminazione del capitalismo all’interno della DDR (Deutsche DemoKratische Republik), la Repubblica Democratica Tedesca nata sul territorio corrispondente alla zona di occupazione della Germania assegnata all’Unione Sovietica alla fine della Seconda Guerra Mondiale; un muro eretto dal governo comunista per impedire i massicci trasferimenti dei suoi cittadini verso la parte occidentale spinti dall’oppressiva mancanza di libertà e attratti da un tenore di vita più alto. Almeno centotrentotto persone sono morte nel tentativo di evadere da quella che per loro era una prigione a cielo aperto. Quella disperata ricerca della libertà a costo della vita. Per chi c’era quel 9 novembre di venticinque anni fa, per chi ha visto e vissuto, è sembrato strano, quasi irreale, poter attraversare il «muro».
Tutto è avvenuto con una rapidità e immediatezza da lasciar increduli, con una gioia ed esaltazione mista alla rabbia di chi con ogni mezzo tentava di fare a brandelli quei lastroni prefabbricati. «Ich bin ein Berliner», «Io sono un berlinese», aveva detto il presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy il 26 giugno 1963, mentre era in visita ufficiale alla città di Berlino Ovest, e quel giorno di venticinque anni fa ci siamo sentiti un po’ tutti berlinesi. Erano gli anni della perestrojka e c’era un’energia di rinnovamento contagiosa che rendeva tutto possibile, persino i sogni. Oggi a ricordare c’è una folla composta, oggi è una cerimonia e nell’aria si respira la sacralità di alcuni eventi, con le parole di Angela Merkel a ricordarci che «la caduta del muro ha dimostrato che i sogni possono diventare realtà».
Tantissimi gli eventi e i concerti organizzati presso la porta di Brandeburgo: dall’orchestra della Staatsoper Unter den Linden, all’Opera di Stato di Berlino, diretta da Daniel Barenboim, fino ad arrivare ad artisti più popolari come Peter Gabriel. Ma la memoria torna sempre indietro, torna ad un violoncellista che non può più abbracciare il suo strumento perché morto il 27 aprile 2007: Rostropovic. Lui che sotto la porta di Brandeburgo c’era andato nel 1989 per suonare mentre il muro cadeva, simbolo della sua vita divisa: «Nel 1978 mi era stata tolta la cittadinanza sovietica, e mi era negato l’ingresso in qualunque Paese comunista. Da allora la mia vita era divisa, come spaccata in due: da una parte, in Russia, la famiglia, i parenti, gli amici, i miei luoghi, il mio passato. Dall’altra, la casa a Parigi, i concerti, le tournée. Quando sono andato al Muro di Berlino non è stato un atto politico, ma personale. Ero a Parigi, la sera ho telefonato ad un amico che mi ha detto di accendere immediatamente il televisore. All’inizio non capivo, guardavo quelle immagini e non capivo. Vedevo gente che festeggiava, che si abbracciava, che stappava bottiglie.
Quando mi resi conto di cosa stava succedendo le lacrime hanno iniziato a scendere e mi venne spontaneo precipitarmi sotto quel muro che cadeva. Il Muro di Berlino nella mia vita ha avuto il ruolo di una cicatrice su cuore. Avevo quarantasette anni quando mi hanno cacciato dall’Unione Sovietica, dopo i quarantasette anni è iniziata un’altra vita. E queste due vite non si sono mai riunite. Quando ho visto che buttavano giù il Muro ho pensato che finalmente avrei potuto avere la speranza che queste due parti della mia vita potessero ricongiungersi. E come un pazzo la mattina successiva ho preso il violoncello e sono salito su un aereo. Ero ritornato completamente me stesso: non più da una parte il concertista che viaggiava per il mondo e dall’altra la mia storia fino ai quarantasette anni. Suonare sotto il muro voleva dire esprimermi completamente, esprimere la gioia di fare musica e la gioia di riabbraciare quel pezzo di vita che mi era stato sottratto». Una gioia condivisa da milioni di persone.
Paola Mattavelli
19 novembre 2014