La grande migrazione di Kari Hotakainen
Partite dalla realtà della nostra società post-industriale, trasfiguratela in una dimensione astratta di stampo orwelliano, mitigate gli incubi con tratti di possibile speranza e cospargete il tutto con abbondante ironia. Il risultato sarà un raccontare sciolto e piacevole, mai banale, a tratti corrosivo, ma mai disperato. Esattamente quello che probabilmente si proponeva Kari Hotakainen nella sua nuova opera, “La grande migrazione”, uscito quest’anno nella versione italiana per i caratteri di Iperborea.
Un romanzo tagliente, spietato senza essere cinico, che trova ispirazione più nell’attualità sociale che nella pura fantasia, ma che trova la vena più felice in una dimensione quasi favolistica, affidando il riscatto di un’umanità degradata alle regole più naturali del mondo animale.
Per assecondare le leggi della globalizzazione gli uomini si sono trasferiti in massa dalle campagne alla città, non occupandosi più di produrre ciò che avrebbero consumato e lasciando la natura sotto il controllo degli animali. Le bestie si trovano finalmente a vivere in santa pace, socializzano fra di loro e si raccontano delle storie senza doversi più dare la caccia perché gli umani si sono lasciati dietro cibo di ogni genere. La vita urbana è decisamente meno equilibrata e serena rispetto a quella rurale: la Città è impreparata ad accogliere e soddisfare le primarie necessità di questa umanità di allevatori, agricoltori, provinciali, relitti umani, abili e riformati, gente di ogni tipo disposta a lasciare tutto per precipitarsi verso l’ignoto, che promette molto, ma poco (o forse nulla) restituisce ma “attende nuovi contribuenti, perché i vecchi sono ormai spremuti”. Ed è chiaro sin da subito che il nuovo contesto non sia in grado di accogliere e assicurare un’abitazione ai nuovi arrivati, tantomeno un lavoro per mantenersi, non parliamo del cibo per sopravvivere.
Dopo aver creato il problema è necessario, quindi, trovare una soluzione ed i Responsabili, esattamente coloro che lo hanno creato, sono in prima linea a lavarsene le mani e a trovare dei capri espiatori di malaussèniana memoria su cui riversare le proprie responsabilità. Essi hanno fatto cadaveri che altri dovranno fare sparire, convinti che gli altri insieme ce la faranno “a trovare una soluzione al problema che abbiamo creato noi”!
Ecco, quindi, che i Responsabili istituiscono l’Archivio, un gruppo raffazzonato di Precari affamati, a cui promettono un alloggio comodo in cambio della risoluzione del dilemma: sono persone privilegiate, ma al tempo stesso in trappola perché non possono rifiutare l’incarico non avendo alternative. All’Archivio l’idea non manca: l’assegnazione dell’alloggio sarà definita in base alle risposte date al questionario, che lo stesso gruppo ha definito e chi sarà in grado di raccontare meglio la propria vita sollecitando e colpendo la sensibilità e sentimenti degli esaminatori, si sarà guadagnato la casa. Cosa ci vuole a raccontare una bella storia, così decorata tanto da primeggiare e conquistarsi il premio ambito? Ha inizio, quindi, una serie esilarante e graffiante di storie da parte di disgraziati disposti a tutto, che la penna tagliente di Kari Hotakainen crea con sagacia orwelliana; situazioni assurde e imbrogli spietati che l’autore racconta come se fossero ovvi e normali ed impostori verosimili che suscitano l’ilarità del lettore.
Kari Hotakainen, come in una pièce teatrale ai confini del teatro dell’assurdo, mette in scena personaggi, luoghi e circostanze che rappresentano la Società contemporanea, non per forza quella finlandese; si assiste ad una tipizzazione delle ambientazioni e dei protagonisti, tanto che nello sfilare davanti agli occhi del lettore sembra che questi gli strizzino l’occhio, chiedendogli se si riconosca in quello spettacolo.
Ecco, dunque, le sagome ricavate da quel laboratorio: la Città (diventata un tritacarne dove l’intelligenza è ormai ammuffita per lo scarso utilizzo), i Responsabili (che tali in realtà non dimostrano di esserlo), i Contadini (che si erano abituati ad una vita dalla trama rassicurante di “Studio, lavoro, casa, famiglia, carriera, pensione, vecchiaia, funerali”, che ormai non esiste più), i Cittadini (affamati e inebetiti dalle chiacchiere di chi li ha attirati in Città), i Precari (gli umiliati e offesi dei nostri giorni da cui proviene anche la Presidente dello stato, che “era stata uno di quei poveracci arrivati con il treno, piantata ai margini della Piazza Grande”), la Grande Fattoria, i Centri Commerciali (entrati in disuso e trasformati in alloggi provvisori a causa della fine dell’amore appassionato tra le persone e le cose), la Campagna (denominata Area Ricreativa dopo la fuga degli umani) e via di questo passo.
Di storia in storia fino alla paralisi dell’Esaminatrice ed al crollo emotivo della Presidente il lettore viene accompagnato, con il ghigno dell’autore, fino all’ultima pagina del libro. E quando pensa di essere arrivato alla fine: “È qui che finisce la storia. E poi ricomincia. Perché così vogliamo. Questa era solo la prima stagione di produzione. La prima e l’ultima, se lo chiedessimo al maiale. Ma agli animali non chiediamo mai niente”. E proprio solo gli animali sono in grado di conservare un po’ di saggezza: di fronte alle proposte del troll Mumin, che ragiona e si esprime esattamente come i guru del marketing e del brand, le bestie avvedute si prendono in mano la propria vita e lo mandano in esilio perché in fondo la loro esistenza non è inventata da qualcuno e per dirla con il procione “io sono un animale, non una tazza e nemmeno una tovaglia”. Prendono così le distanze da quell’umanità che si è persa per strada e che ha lasciato alla fauna il pieno controllo della campagna per rifugiarsi nel mondo invivibile creato da lei stessa, con la sensazione che nulla cambierà.