Un grido di dolore collettivo: Milwaukee Blues di Dalembert
La nostra recensione dell'ultimo libro di Louis-Philippe Dalembert, Milwaukee Blues, tra crudeltà e violenza razziale.
La nostra recensione dell’ultimo libro di Louis-Philippe Dalembert, Milwaukee Blues, tra crudeltà e violenza razziale.
La trama
911. C’è un’emergenza a Franklin Heights, quartiere prevalentemente black di Milwaukee, dove un uomo di nome Emmett ha appena pagato con soldi falsi all’interno di un minimarket. Il proprietario pachistano, quindi, fa arrestare Emmett che viene, però, ucciso per mano della polizia, soffocato e in preda agli stenti. Questa la trama, in brevissimo, di Milwaukee Blues, una “canzone” triste e mogia dalla durata di 271 pagine. Quello che colpisce del libro è l’immediata franchezza dell’accaduto: sappiamo già tutto e ci viene raccontato attraverso varie voci che canalizzano via via l’attenzione del lettore: la maestra, l’amica d’infanzia, l’amico spacciatore, fino ad arrivare all’obiettivo della vita: la NFL. La National Football League. L’obiettivo di Emmett, si evince tra le righe (e poi diviene palese) è raggiungere la vetta internazionale per diventare un giocatore di football americano ai massimi livelli: le figure che lo accompagnano in questa vita da college (che non fa per lui) sono principalmente il coach della squadra, la fidanzata del tempo e la sua ex, ognuno con un proprio capitolo dedicato.
Un sermone continuo
Milwaukee Blues è come fosse un ricordo continuo della figura di Emmett. Non è un giallo, non racconta una storia (se non nelle prime tre pagine del prologo). Come fossimo tutti all’interno di una parrocchia, davanti a noi il corpo di Emmett senza vita, via via ogni persona sale sull’altare e, in poche pagine, racconta ciò che per lui o per lei ha voluto significare conoscere Emmett. Il libro è possibile dividerlo in due parti ben distinte: la prima parte, che occupa più o meno le 150 pagine iniziali, è proprio il racconto della vita di Emmett mediante le figure sopra elencate, personaggi vivi, alle volte un po’ troppo stereotipati, che incarnano alla perfezione lo stile di vita in una periferia di provincia afroamericana, mentre il secondo blocco è rappresentato dalla marcia per la pace a seguito della sua morte, capitanata dalla duttile figura di Ma Robinson, una delle meglio descritte dell’intero lavoro.
Emmett è… Emmett
Emmett non è George Floyd. Emmett non è Eric Garner. È un’altra figura. Un altro tipo di uomo. Il messaggio che Dalembert vuole far passare è quello del non voler ridurre a numeri gli afroamericani ingiustamente uccisi dalla polizia. È una figura-simbolo, attraverso cui si serve per illuminare un angolo buio e disperso della convivenza civile. Questo libro scritto in francese (Dalembert è, infatti, haitiano), quindi, si presenta come “racconto del reale”, anche (e soprattutto) attraverso citazioni ed avvenimenti che accadono sui social network, sui telegiornali, sui giornali. Dalembert non cerca risposte, cerca sensibilizzazione. Questa capacità, complessa da raggiungere, è colta per metà. Il libro, alla fin fine, non desta mobilitazione, dipinge scenette di una quotidianità (che non dovrebbe essere tale) e aiuta a dire: “un giorno tutto questo finirà, ma non sappiamo ancora quando effettivamente…”. È forse necessario? Di sicuro fa male, ma questo dolore di Milwaukee Blues che doveva arrivare come l’omonimo brano di Charlie Poole & The North Carolina Ramblers ci arriva un po’ zoppo e privo di questo istinto reazionario che, crediamo, fosse l’intento di fondo di Dalembert.
In breve: un racconto godibile, per far luce su alcuni aspetti purtroppo “normali” negli Stati Uniti e che ci sembrano, almeno geograficamente, molto distanti da noi.