Sul sapere: sempre più frammentato e marginale
Non ci restano che frammenti eterogenei. Della realtà abbiamo perso la visione globale, l’insieme. Si fa presto a dire che bisogna avere una visione del mondo. Ad esempio di tutta la sovraesposizione mediatica fatta di notizie, opinioni, immagini non ci restano che poche tracce mnestiche nella memoria a breve termine, che poi non diventeranno mai parte della memoria a lungo termine perché finiranno nell’oblio. Si rimane smarriti, incerti. Non a caso ai tempi della pandemia si è definito ciò infodemia. Siamo un’infinitesima parte del tutto che non potrà mai capire il tutto. Non ci restano che tasselli minuscoli, schegge di reale microscopiche, che sono la nostra conoscenza. Talvolta queste schegge di realtà impazziscono, contrastano e stridono tra loro, ed ecco che l’intellettuale deraglia, delira, diventa preda di un grave esaurimento nervoso. Quando una mente cerca di abbracciare il mondo finisce per fallire. Ma come scriveva Beckett bisogna fallire e fallire di nuovo e ancora. La via della conoscenza è fatta di fallimenti, è essa stessa un fallimento. Acculturarsi significa fallire da un punto di vista gnoseologico, socioeconomico, umano. L’umanesimo soprattutto è in crisi. Le parole, le idee, i valori sono stati svalutati oltremodo. La civiltà occidentale è business e tecnologia; è immagini, numeri, materia, scienza. La lotta è impari. Agli umanisti non restano che spiegazioni improvvisate e rabberciate sulla follia del mondo, sulle guerre, sulle problematiche del reale. Ai religiosi non restano che poche parole di conforto alle pecorelle smarrite e poche parole di commiato. Ma resta tutto come prima. È una bella pretesa quella di conoscere, di sapere al mondo d’oggi. Il sapere si è sempre fatto più specifico, più settoriale. Bisogna specializzarsi in un ramo, in un settore. Questa è l’epoca degli esperti. Bisogna scegliersi un ambito di competenza, un ramo dello scibile. Non si può pretendere di sapere tutto. Chi cerca di sapere tutto finisce per non sapere niente. Il sapere si è frammentato. Ognuno guarda al proprio settore. Nessuno cerca di raccogliere e riunire i cocci della cultura. Cercare la ricomposizione è vano. A nessuno interessa la cultura generale di una persona. Ai tempi dell’Umanesimo e del Rinascimento pittori, poeti, scienziati dialogavano tra loro e la cultura era un tutt’uno. Snow qualche decennio fa parlò delle due culture: gli umanisti e gli scienziati. Osservò che i primi non sapevano niente di fisica e i secondi non sapevano niente di Shakespeare. Insomma c’era incomunicabilità tra umanisti e scienziati. Il sogno e l’ambizione della cultura enciclopedica degli illuministi è finito, è morto e sepolto. Schwartz ha scritto una biografia di Enrico Fermi, definendolo l’uomo che sapeva tutto. Oggi nessuno sa tutto. Il matematico Odifreddi ha dichiarato che oggi uno scienziato non sa quasi più nulla delle ricerche di un altro scienziato di un’altra disciplina e che oggi si capiscono raramente anche tra uomini di scienza. Alain Berthoz ha sostenuto che bisognerebbe promuovere la semplessità, ovvero essere interdisciplinari, avviare un dialogo tra i saperi, ridurre un poco la complessità della cultura, senza renderla troppo semplicistica. Ma l’impresa è davvero ardua. Gli stessi divulgatori scientifici non sono spesso visti di buon occhio dagli accademici. Il sapere oltre a diventare sempre più settoriale è anche diventato sempre più esoterico con il suo gergo specialistico. Gli autodidatti non contano nulla, sono visti come dei dilettanti amatoriali, confusi e confusionari. Sartre ci aveva già avvertito: il suo autodidatta, figura centrale de “La nausea”, finiva miseramente per essere allontanato dalla biblioteca, dopo aver molestato un ragazzino. Comunque ognuno deve avere titoli di studio, certificati, attestati, cattedre per avere un minimo di autorità. Ma anche gli accademici stessi vengono relegati ai margini della vita culturale del Paese: non hanno spesso visibilità mediatica, non fanno notizia, il loro potere è esiguo, marginale. Alcuni intellettuali scrivono su grandi quotidiani, che hanno molti meno lettori di venti anni fa; inoltre spesso le persone leggono solo i titoli, i fatti di cronaca salienti e spesso non leggono i commenti, gli editoriali, la terza pagina. Un’esigua minoranza degli intellettuali viene chiamata talvolta a esprimere un’opinione di pochi secondi su una rete televisiva generalista a un TG o di pochi minuti in una trasmissione di attualità e politica. Devono ipersemplificare, essere brevi, concisi, a costo di essere banali. Viene detto loro che c’è la pubblicità, che la tv ha i suoi tempi. Devono rispettare il mainstream e il politicamente corretto; non possono e non devono esprimere opinioni troppo controcorrente per non essere oggetto di polemiche che non finiscono più. Poi tutto finisce lì. Hanno il loro quarto d’ora di celebrità nazionalpopolare, viene dato loro questo contentino dopo una vita di studi, vengono riconosciuti e fermati dalla gente per qualche giorno (gente che non si ricorda cosa hanno detto, ma ricorda solo i loro volti) per ripiombare e inabissarsi nella loro solitudine accademica per tutto il resto della vita. E poi anche l’opinione di un esperto non fa notizia perché viene annullata e fagocitata dalle opinioni di mille altri esperti e tutto finisce in un grande calderone mediatico. Insomma il medium è il messaggio, come si suol dire. Conta solo il contenitore. Contano solo l’immagine, il mezzo, l’aspetto. Il contenuto non conta più. Chi può dire in tutto questo caos qual è il contenuto valido o meno? E dove sta la verità? Non ci sono più filtri, mediatori culturali, gerarchie: tutto è uguale a tutto e uno vale uno. Il contenuto è un immenso millefoglie di cui ci ingozziamo e che poi vomitiamo il giorno stesso o il giorno dopo in una continua, incessante bulimia mediatica e socioculturale.