Il disastro di Woodstock ’99 raccontato nella serie Netflix “Trainwreck”
Ricreare l’atmosfera di Woodstock ’69, trent’anni dopo. Molte cose non hanno funzionato e Netflix ne ha fatto un documentario.
Location militare e atmosfera velenosa
Come celebrazione dai trent’anni esatti da Woodstock ’69, l’organizzatore Michael Lang decise di provare a riproporre trent’anni dopo uno dei festival musicali più amati nella storia: così nacque Woodstock ’99. L’intuizione di Lang, raccontata ai microfoni del documentario Trainwreck disponibile su Netflix, fu inizialmente quella di provare a recuperare gli stessi spazi in cui si svolse la manifestazione nel ’69 ma ciò non fu possibile per ingerenze del governo locale di Bethel. Questa piccola cittadina rurale nello stato di New York era stata per decenni l’icona della pace, della trasgressione, dei giovani. Una marea umana (450.000 persone), nel ’69, fu accolta a Woodstock e l’idea di ricreare, esattamente trent’anni dopo, la stessa atmosfera era un qualcosa di unico, da non lasciarsi scappare per nulla al mondo. Per questo motivo, accantonata l’ipotesi Bethel, venne individuata come zona d’interesse la località statunitense di Rome, sempre nello stato di New York. L’idea era quella di realizzare una quattro giorni di musica dal vivo, che coinvolgesse quante più persone e gruppi musicali possibili. Si prefiggeva l’intento anche di essere un festival politico: contro i disagi causati dalla guerra in Vietnam, Lang e gli altri organizzatori volevano a tutti i costi ricreare questo “festival dell’amore e della pace fraterna”, come annunciato nella conferenza stampa di presentazione. Alanis Morrisette, The Chemical Brothers, Elvis Costello, Bush, Fatboy Slim, Ice Cube, Jamiroquai, Kid Rock, Limp Bizkit, Korn, Megadeth, Metallica, Offspring, Rage Against The Machine, Red Hot Chili Peppers furono solo alcuni dei numerosissimi e famosi nomi che avrebbero composto l’enorme e vasto cartellone di Woodstock ’99 che si proponeva di riservare anche delle sorprese inaspettate nell’arco dei quattro giorni. Ma non tutto (se non niente) andò secondo i piani: lo svolgimento del festival fu turbato da alcuni gravi e gravissimi incidenti che causarono un numero veramente cospicuo di feriti nonché un morto. Woodstock ’99 divenne l’emblema del disagio e del disastro delle nuove generazioni, che venivano così dipinte come prive di freni inibitori e capaci di creare e successivamente distruggere completamente, dando anche letteralmente alle fiamme, l’habitat in cui, in realtà, avrebbero dovuto vivere in armonia e fratellanza per quattro giorni.
Come si è arrivati ai fiammiferi e al cherosene
Il documentario Trainwreck uscito quest’estate su Netflix ripercorre proprio lo svolgimento del festival in tre puntate. È una ricostruzione molto fedele (in effetti, ci sono solo footage reali del ’99) con un’aggiunta interessante: un numero molto cospicuo di interviste ai protagonisti, nonché allo stesso organizzatore Michael Lang (una sorta di intervista-processo), che è deceduto due mesi dopo la fine delle riprese. Quello che il documentario tende a sottolineare è la completa impreparazione del personale tecnico-sanitario in vista di un festival di tale portata. Già dal primo giorno si erano innalzate lamentele per quanto concerneva la sanità del bagni chimici (unici bagni all’interno del festival e nel raggio di due chilometri dalla base militare Griffiss). Il caldo invivibile fu un altro grande fattore di scoramento: il pubblico, accalcato e ammassato, non fu trattato degnamente: mancava cibo e l’acqua veniva venduta ad un minimo di 4 dollari a bottiglia (poi aumentata al doppio gli ultimi due giorni di festival). Per evitare, quindi, di spendere, i giovani riempivano le proprie bottiglie in dei rubinetti che furono presto intaccati dalle acque reflue, creando problematiche sanitarie senza precedenti. Il problema delle acque fu vergognoso: il pubblico si lavava con i liquami di scolo, generando malattie che si propagavano a vista d’occhio. I medici non erano abbastanza per affrontare l’orda di malattie e problematiche che si abbattevano giornalmente a Rome e ci sono immagini raccapriccianti di alcune persone lasciate ad attendere il proprio turno sotto il sole di luglio in una ex base militare che non aveva predisposte nemmeno delle banchine per attendere il proprio turno all’ombra. La nomea che si era fatta Woodstock era stata infangata, da icona di stile e coesione giovanile, ad essere svenduta ai brand per lucrarci sopra. E quando il pubblico capì finalmente cosa stesse accadendo e che il termine Woodstock fosse soltanto di facciata per un festival creato ad hoc per generare soltanto valore, si rivoltò. “Non si può fermare una rivolta negli anni Novanta” dissero molti dei presenti. Avevano ragione. Il pubblico, stanco, deluso, amareggiato, dopo appena il terzo giorno cominciò a dare effettivamente alle fiamme alcune zone dell’ex base militare, costringendo alcuni gruppi a fermare le loro performance. Fatboy Slim, intervistato nel documentario, dichiarò di aver visto un autobus dell’organizzazione parcheggiarsi tra la folla (con il conseguente rischio di poter investire qualcuno) e al cui interno si trovavano ragazze che, prive di sensi, erano state, con tutta probabilità, violentate.
Cosa ci ha lasciato Woodstock ’99
Oggi, i festival, anche quelli più “spinti” hanno effettivamente a cuore la cura degli spettatori paganti. È un diritto ormai inalienabile per ogni spettatori che si rispetti. Woodstock ’99 fu quell’eccezione incredibile, all’interno di un mondo in cui i giovani non si sentivano più rappresentati, né in politica né nella musica. Quando gli Offspring o i Korn salirono sul palco vennero accolti come i salvatori del linguaggio dei giovani e questa “voragine” venne poi raccolta dai Red Hot Chili Peppers, che videro con i loro occhi un pubblico, al quarto giorno, stanco che addirittura diede fuoco alle impalcature in legno del festival dopo che l’organizzazione ebbe la non brillantissima idea di consegnare delle candele al pubblico per onorare i caduti del Vietnam e dare un messaggio di pace. Tutto ciò venne assolutamente travisato: ci fu persino un morto e numerosi feriti. Quella stessa sera arrivò addirittura l’FBI e quante più pattuglie aeree possibili anche per evitare un disastro ambientale di dimensioni enormi (alcune botti che contenevano benzina e alcool, infatti, furono fatte esplodere, causando ingenti danni sia alle strutture sia al polo che ospitava il festival). Mesi dopo si cominciarono anche a diffondere storie riguardo problematiche psicologiche e traumi che causò Woodstock ’99, dichiarazioni soprattutto di alcune donne che furono violentate dopo che avevano assunto sostanze stupefacenti. Le responsabilità non furono mai chiarite, gli organizzatori di Woodstock ’99, compreso Lang, non furono mai processati e la quattro giorni di pace, amore e fratellanza si risolse in un disastro totale dalle proporzioni enormi.
Ad oggi non è previsto nessun tentativo di rievocare Woodstock, in alcuna parte del mondo. E forse, purtroppo o per fortuna, è un bene che sia così.