Medicine at Midnight. La decima fatica dei Foo Fighters

Il 5 febbraio i Foo Fighters hanno pubblicato il loro decimo album in studio, dal titolo Medicine at Midnight, per Roswell e RCA Records. Originariamente previsto per il 2020, l’ultimo lavoro della band statunitense è uno di quei progetti frenati dall’emergenza pandemica legata al Covid-19. Ciò testimonia come questa situazione abbia inciso pesantemente non solo su realtà più circoscritte, ma anche nei riguardi di artisti dalla caratura mondiale.
Tali complicanze, però, hanno giocato un ruolo decisivo anche nella logica del lavoro in questione. Può un evento tragico cambiare le sorti di un disco? Mutarne l’intera ragion d’essere?

Il ‘Let’s Dance’ dei Foo Fighters
Come riportato da Pitchfork, Dave Grohl – durante l’intervista per la stazione radio di Los Angeles ALT 98.7 FM – si è concentrato sulle influenze che hanno contribuito alla realizzazione di Medicine at Midnight. Il frontman ha affermato come questo disco sia “il nostro Let’s Dance di David Bowie” (quindicesimo album in studio dell’artista inglese risalente al 1983).
I Foo Fighters si orientano su soluzioni immediate, tipiche della scena rock, contornate da un forte utilizzo di componenti riconducibili al panorama pop degli anni Ottanta. La traccia iniziale – Making A Fire – rappresenta un primo passaggio cruciale per la comprensione del lavoro: brano perfetto per aprire un disco che, fin dalle prime note, mostra la band spensierata e desiderosa di cimentarsi con una prova non semplice.
Questa positività, insita in buona parte del lavoro, è parzialmente contrastata da Shame Shame: il primo singolo estratto dall’album, infatti, possiede dei tratti nostalgici, quasi ombrosi. Nonostante ciò, l’impostazione adottata dai Foo Fighters rimane ben salta, conferma di quanto importante sia stata la ricerca per il perseguimento di questo risultato.
C’è chi definisce Medicine at Midnight come un disco appartenente al filone power pop, che richiama lavori di mostri sacri della musica mondiale, quali – per esempio – Beach Boys e Who (per citarne alcuni). In realtà, la prospettiva è più ampia: i Foo Fighters sono giunti a un prodotto soprattutto moderno. Oggi, infatti, il panorama musicale si va costituendo di lavori sempre più ibridi e meno catalogabili all’interno dei singoli generi. Come riportato da Rolling Stone, in un bellissimo articolo a cura di Kory Grow, Medicine “è figlio di una passione per il pop che fino a oggi era emersa solo in parte”.
Da sottolineare, inoltre, una gestione impeccabile della sezione ritmica. Taylor Hawkins (batterista) risulta una garanzia in tal senso: l’eccellente utilizzo di soluzioni tipiche degli anni Settanta aiuta il disco a raggiungere quella eterogeneità indispensabile per la riuscita del prodotto. Proprio nella title-track si evince questo nesso stilistico fra epoche differenti, un concentrato di sensazioni che riportano a quell’arco temporale compreso fra gli anni Sessanta e Novanta.
Il contrasto con l’emergenza pandemica
Uno dei caratteri prevalenti di questo disco è la sua verve gioiosa. La gran mole di elementi pop dona all’album una freschezza costante per l’intero ascolto. Come anticipato, i Foo Fighters hanno completato Medicine at Midnight prima della pandemia ma, a causa della situazione che stiamo vivendo, il disco è stato pubblicato solo nel febbraio di quest’anno.
In realtà il lato organizzativo non è il solo ad aver subito alterazioni; questa attitudine “leggera” dell’album, infatti, è costretta a fare i conti con la negatività odierna. Il Coronavirus finisce, così, per incidere pesantemente anche sul piano interpretativo: non più semplice spensieratezza ma anche un vero e proprio inno di speranza. Innegabile come i Foo Fighters abbiano mantenuto fede alla loro tradizione. Al di là del gradimento dell’album o meno, il disco cattura, si lascia amare per quello che è. Medicine at Midnight è ciò di cui abbiamo bisogno per risollevare, in parte, il nostro spirito.