Cristianesimo in Medio Oriente, storia di una maggioranza divenuta minoranza

Parlare di religioni non è mai facile poiché con esse si toccano le corde più profonde dello spirito umano. Ancora più difficile è parlare di storia delle religioni perché spesso le storie sono ingloriose, ignobili, velate di ombre su cui è doveroso, per lo studioso onesto, gettare luce. Se poi le religioni di cui si parla, come nel nostro caso, sono le tre grandi religioni monoteiste, le cose si complicano ulteriormente: svelare verità dimenticate e ribaltare convinzioni che milioni, anzi miliardi di persone ritengono tali è cosa quanto mai complessa. Questo, è inevitabile, scontenterà sempre qualcuno. Eppure, lo ripetiamo, è il dovere di ogni buon ricercatore: guardare alle cose del passato con occhio onesto e critico.
Ma attenzione! Critico non significa giudicante; anzi, guai a quelli che, guardando al passato, lo giudicheranno con i valori del presente. Il sentire di ieri non è lo stesso di oggi: a noi solo il compito di constatare i fatti. Certo, senza per questo giustificare errori o violenze, ma anche senza la presunzione di considerare i moderni migliori degli antichi. Gli storici del futuro guarderanno a noi come noi guardiamo ai nostri predecessori. C’è da sperare –ma lo dubito– che quegli storici non ancora nati siano con noi clementi; la nostra presunta modernità non ha nulla da vantare: guerre, ingiustizie, segregazioni di ogni tipo. Non siamo moderni, siamo solo venuti dopo.
Il lettore interessato all’argomento perdonerà una così lunga introduzione e certamente ne comprenderà la necessità in un tempo così liberale eppure così suscettibile, così emancipato e allo stesso tempo così censore.
Le origini
La storia del cristianesimo in Medio Oriente ha origini lontane: il primo cristiano di cui le fonti tramandino notizia, per citare liberamente Nietzsche, fu Gesù di Nazareth. Dopo di lui, e almeno fino al VII secolo, l’ascesa cristiana –seppure tra alti e bassi– non conobbe rivali. Fu proprio dalla terra di Israele che partirono missionari gli Apostoli, quelli che secondo le primitive fonti cristiane, erano stati seguaci di Cristo. Viaggiarono in tutto il mondo conosciuto seminando un insegnamento destinato a ribaltare le sorti dell’Impero. Celebri rimasero i viaggi di Paolo di Tarso, addirittura passato alla storia come apostolo delle genti, che nel Medio Oriente compì, prima di essere martirizzato a Roma, la maggior parte dei suoi viaggi. E tuttavia proprio san Paolo, prima di convertirsi al cristianesimo, ne fu acerrimo nemico: perseguitò e uccise, in nome di Roma, tutti coloro che si professavano cristiani. Ciononostante le persecuzioni romane, che a più riprese interessarono il nuovo culto, non ottennero in nessuna parte dell’Impero l’effetto sperato e anzi, più i martiri versavano il proprio sangue più gli aderenti alla nuova religione si sentivano confermati nel nuovo credo.
Il cristianesimo si trovò quindi a crescere sottotraccia senza che ciò intaccasse minimamente il suo sviluppo. Così fu fino alla data, divenuta poi simbolica, del 313: in quell’anno, con rescritto imperiale, Costantino e Licinio diedero un nuovo e decisivo impulso all’espansione cristiana che passava, grazie all’Editto di Milano, dall’essere religione perseguitata all’essere –più o meno– religione di Stato. In tutto l’Impero il cristianesimo trovò terra fertile; ciò naturalmente valse anche in Medio Oriente dove il cristianesimo era nato e aveva, attraverso le comunità primitive, mosso i primi passi. Territori come la Siria, il Libano, la Palestina, ma anche la Turchia e l’Egitto si trovarono ad essere per un breve periodo della loro storia a maggioranza cristiana. In questi luoghi, in cui spesso la comunicazione era difficile, sorsero esperienze molto varie di cristianesimo, ciascuna con una propria Chiesa, una propria liturgia e una propria tradizione. Si trattava di forme frammentate, a volte isolate, anche per questo destinate a soccombere velocemente quando, tra il VII e l’VIII secolo, l’Islam le raggiunse per la prima volta.
L’incontro con l’islam e il primo medioevo
Quando nel VII secolo iniziò l’espansione islamica il cristianesimo era ormai largamente praticato in tutto l’Impero, specialmente nei medi e grandi centri urbani. La nuova religione (che ormai aveva settecento anni di storia) era cresciuta e si era appoggiata alle strutture imperiali, di fatto inglobandole. L’Impero aveva approfittato della coesione interna del cristianesimo, inesistente nel paganesimo, per rilanciare il proprio progetto di unità politica, e contemporaneamente il cristianesimo aveva sfruttato le vie di comunicazione e di protezione dell’Impero per espandere il proprio messaggio. Insomma, fino alla caduta definitiva dell’Impero romano (nel 476), Stato e Chiesa –seppure in questo periodo non è ancora possibile parlare di Chiesa istituzionale– avevano tratto dal proprio rapporto ampi e reciproci vantaggi. Tuttavia, dopo che l’ultimo imperatore romano Flavio Romolo Augusto fu deposto, la protezione che la struttura statale accordava al cristianesimo venne meno e l’islam fu libero di espandersi senza trovare resistenze.
Le espansioni islamiche furono fondamentalmente tre: la prima venne guidata dallo stesso Maometto che alla fine del 632 conquistò, grazie al sostegno dei popoli beduini convertiti, tutta la penisola araba rendendola di fatto una nazione teocratica. Alla sua morte il potere passò in mano al Califfato Ortodosso prima e a quello Ommayde poi. Nell’arco di 120 anni questi califfati espansero il proprio dominio nel Nord Africa, nel Vicino Oriente, nel Caucaso, ma anche nella maggior parte dell’Anatolia, nelle isole di Cipro, Rodi e Sicilia e nella penisola iberica. Ciò segnò di fatto il definitivo declino del cristianesimo in quelle terre che per prime lo avevano accolto.
Il ruolo dell’ebraismo
Nel gioco di equilibri e di potere destinato a protrarsi fino ai giorni d’oggi il ruolo dell’ebraismo fu pacificamentesecondario. Ciò non sia letto come scarsa stima nei confronti di una cultura ricchissima, la cui influenza ha profondamente segnato il modo di pensare e di credere occidentale e non solo; essa è una mera constatazione storica, tra l’altro del tutto prevedibile rispetto a un movimento religioso che percepisce se stesso anzitutto come etnico. Il Popolo d’Israele, quello della Torah e del Nuovo Testamento, guarda a se stesso esattamente come a un popolo; per entrare a farne parte, per diventare parte dell’Alleanza, non basta come per il cristianesimo e l’islam, aderire a una serie di credenze. Quello che è “sufficiente” per religioni di tipo universalistico non lo è per l’ebraismo, che è, per l’appunto una religione legata a una serie di tradizioni, linguaggi, simboli e modi di fare non direttamente legati al credere religioso, e da cui tuttavia quest’ultimo non può prescindere.
Questa spiegazione da sola non sarà sufficiente a chiarire i motivi di una mancata espansione dell’ebraismo nel mondo –almeno non ai livelli del cristianesimo e dell’islam– eppure essa contribuisce a chiarirne in parte le ragioni. C’è poi da aggiungere un altro dettaglio, spesso trascurato ma per niente banale: in una prima fase (durata per ben tre secoli) il cristianesimo non era percepito come diverso dall’ebraismo. All’interno di quest’ultimo le correnti erano innumerevoli, spesso anche molto diverse tra loro e per lungo periodo il cristianesimo venne considerato poco più che un’altra forma di ebraismo, forse solo un po’ più popolare.
Dalla modernità al XIX secolo
I cristiani, seppure in nettissima minoranza, continuarono a professare la propria religione tra limitazioni e impedimenti: gli era vietato costruire nuove chiese, svolgere attività pubblica, fare processioni, ma anche ricoprire uffici militare e politici e in caso di matrimonio misto l’obbligo per la prole era quello di essere cresciuta nella fede musulmana. Tutti questi elementi contribuirono a determinare il veloce sorpasso demografico dell’islam sul cristianesimo.
Dopo la caduta di Costantinopoli (1453), con l’avvento dell’Impero ottomano la situazione cristiana migliorò notevolmente. Dal nuovo Impero fu introdotto il sistema giuridico dei millet, per cui ogni comunità religiosa all’interno della Mezzaluna aveva diritto a regolarsi con leggi fiscali e sociali autonome. Col passare dei secoli gli scambi sempre più grandi che i cristiani mediorientali tenevano con la cultura europea non fecero che migliorarne le condizioni. Tra Il XVIII e il XIX secolo, grazie anche al contatto con la cultura illuminista, le comunità cristiane incrementarono la propria condizione economica e raggiunsero una consapevolezza tale da permettergli di rivendicare migliori condizioni giuridiche e sociali. All’indomani della Prima Guerra mondiale, con la disgregazione dell’Impero ottomano, terminò anche la convivenza multiconfessionale che aveva caratterizzato quell’entità statale. Per i cristiani si aprì una nuova fase dapprima più felice, poi decisamente più problematica; in un primo momento stettero –come protagonisti– al fianco dei musulmani nella Nahda, il progetto di rinascita culturale e politica dell’identità araba che prescindeva dalle differenze religiose e si basava piuttosto su una comune matrice araba. Tuttavia questo movimento prese ben presto derive nazionaliste, a tratti teocratiche, deludendo la componente cristiana la quale, a quel punto, emigrò massicciamente verso l’Europa, l’America e l’Australia, decretando la fine della collaborazione politica tra cristianesimo e islam.
I cristiani oggi in terra di conflitto: Israele e Palestina
Oggi ogni Stato costituisce una situazione a sé ed è impossibile generalizzare la condizione nella quale si trovano i cristiani in Medio Oriente; ci sono nazioni più liberali come il Libano e come l’Egitto, dove i cristiani (in particolare i Copti) rappresentano addirittura il 15% della popolazione. Qui la costituzione del 1923 sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, nonostante l’islam sia considerata religione di Stato a partire da una sentenza del Tribunale costituzionale del 1971. Non è però così dappertutto: realtà ben più complesse sono quella iraniana, irachena o pakistana, nazioni in cui ancora oggi il cristianesimo vive forti persecuzioni.
Ma qual è la situazione cristiana nei territori palestinesi e in Israele, che in questi giorni sono teatro di scontri sanguinosi tra ebrei e musulmani? Formalmente i cristiani non subiscono discriminazioni, ma lo sappiamo: la teoria è spesso molto (troppo) lontana dalla realtà. Se da una parte ai cristiani è riconosciuto un ruolo importante sia dal punto di vista economico –per via del forte turismo religioso– sia dal punto di vista sociale –come possibili mediatori tra ebrei e musulmani–, dall’altra su di essi si scagliano le piccole e quotidiane discriminazione di due fronti: quello ebraico e quello musulmano; essi sono considerati arabi-palestinesi da parte di Israele e non-musulmani da parte dei movimenti fondamentalisti islamici palestinesi. La discriminazione è quindi dietro l’angolo: difficoltà a trovare casa, problemi ad accedere alla sanità, all’istruzione, alle cariche pubbliche o statali. Dal 1948, anno in cui venne proclamata la nascita dello Stato di Israele, 230.000 cristiani arabi hanno lasciato quelle terre e nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, il 35% della popolazione cristiana palestinese è emigrato altrove, facendo scendere all’1,6% la presenza cristiana in quelle zone. Tanto in Palestina quanto in Israele le conversioni sono mal viste e la legge impedisce a un ebreo o a un musulmano di diventare cristiano; Hamas guarda con simpatia all’ultra-ortodossia islamica, Israele vive l’ambiguità di essere (o non essere) uno “Stato ebraico”. Insomma, per le isolate comunità cristiane, la vita non è facile né da una parte né dall’altra del confine. Anche gli “aiuti” dei secolarizzati paesi occidentali non fanno che peggiorare le cose: ormai incapaci di comprendere il valore sociale della religione in quelle zone essi scelgono di «aiutare i palestinesi e non aiutare i cristiani» (Ce.S.I., 2006) causando ulteriori discriminazioni. Allo stesso tempo gli stessi democratici paesi sostengono, in tutti i modi in cui ciò è possibile, il governo di Israele che sembra interessato a tutto meno che alla promozione della convivenza interreligiosa. Cosa fare dunque di questa ormai sparuta e multiforme schiera di cattolici, luterani, siro e armeno-cattolici, ortodossi, maroniti ed evangelici? Francamente non lo sappiamo e l’unico augurio che possiamo muovere è indipendente dalla confessione di appartenenza. È una speranza che appare quasi infantile nel civilizzato mondo moderno: quella della pace è un’ingenuità che non appartiene all’evoluzione del nostro tempo così progredito. In fondo noi siamo per i diritti, siamo per la democrazia: e d’altra parte le bombe lo sono. In questi giorni esse volano senza sapere se le teste su cui cadono siano ebree, cristiane o musulmane.
Articolo a cura di Gaetano Chiarolanza