Checkpoint Algeria

Siamo giunti alla terza e, per adesso, ultima tappa del nostro viaggio nella guerra d’Algeria.
Gianfranco Peroncini risponderà alle nostre domande sul suo secondo libro “La maledizione dei
centurioni” edito per Passaggio al bosco.
Ciao Gianfranco e bentrovato, ti ringraziamo da subito per questo viaggio fatto assieme ed iniziamo con la prima domanda: una citazione importante fatta nel tuo libro è quella riferita ai centurioni francesi che “avevano saputo vincere la guerra ma non ebbero la forza di vincere la pace”. Puoi spiegare meglio questa frase?
Dobbiamo riprendere la categoria di quello che abbiamo definito il “sillogismo imperfetto”.
La “maledizione dei centurioni”, in sintesi, rappresenta il fallimento dell’ultimo sogno rivoluzionario dell’Occidente europeo.
Come sottolineato nel primo volume della serie, il nuovo tipo di militare uscito dalla tempesta indocinese non avrebbe più potuto essere un individuo naturalmente portato al mestiere delle armi. Doveva trasformarsi in un soldato politico, autonomamente, cercando a tentoni un metodo e un’ideologia adatti, malvisto, osteggiato e sorvegliato dal potere politico e dagli alti gradi dell’esercito che dovevano nomine, cariche, prebende e promozioni al benvolere governativo. Ma l’esercito dei colonnelli e degli ufficiali francesi, com’è stato scritto, messo di fronte alla miseria umana, odia il comunismo davanti al quale si accorge di indietreggiare e diffida sempre più del capitalismo, che fornisce le armi alla propaganda sovversiva.
Impossibilitati, impediti o incapaci, a realizzare concretamente le aspirazioni profonde della loro natura, di fronte all’esigenza di battersi, da subito e sino in fondo, per una soluzione decisiva, fondamentale, radicale, in grado di battere in breccia i due errori contrapposti e complementari della tesi e dell’antitesi (capitalismo o comunismo), finirono per smarrirsi.
Gli ufficiali che avevano fatto l’Indocina, erano quadri subalterni contagiati dal mal jaune, la “febbre gialla” della politica, contratta in Estremo Oriente, quel “socialismo in uniforme cachi” che tanto inquietava gli stati maggiori. Uomini di destra con idee di sinistra. Ma, soprattutto, “sillogisti imperfetti”, vale a dire caratteri di sintesi costretti a vivere e operare, gioco forza, sulla linea tagliente delle antitesi conflittuali.
Al momento decisivo, nelle roventi giornate del maggio algerino del 1958, si troveranno impantanati dalle circostanze e costretti a ripiegare sull’alternativa “de Gaulle o il caos”, la cui risoluzione, per le loro speranze, si sarebbe rivelata mille volte peggiore degli attacchi dell’Fln.
Ciò che mancò, in ultima analisi, fu una precisa, pronta e lucida comprensione della posta in gioco, degli obiettivi strategici di lungo periodo e delle formidabili opportunità tattiche che si erano schiuse dinanzi a loro.
Rivoluzionari per un giorno, malgré eux, erano ancora soltanto dei soldati, farà dire Jean Lartéguy a uno dei protagonisti dei suoi “romanzi”, costretti a entrare a forza, e sulle prime di controvoglia, nelle categorie della guerra rivoluzionaria che sovvertono e frantumano ogni distinzione tra l’ambito politico e quello militare.
Una contraddizione intima ed esistenziale che si maturerà e salderà quando sarà ormai troppo tardi.
Esisteva un’alternativa possibile?
L’alternativa, l’unica possibile, si disegnava lungo i contorni storici e socio-politici che passano sotto il nome del cosiddetto “plan Pouget” che è il cuore del secondo volume della “Maledizione dei centurioni” e che si rincorre nel corso di tutte le pagine della nostra ricostruzione storica. Un’alternativa riassunta nel sottotitolo “eretico”: pensare l’inosabile. Algeria francese, Algeria algerina o Algeria fraterna…?
Il “piano Pouget” prende il nome dal maggiore dei paracadutisti francesi – al quale Jean Lartéguy dedicò il best seller Les Centurions – che lo propose concretamente sul piano storico.
Solo pochi mesi dopo la fine della “battaglia di Algeri”, nell’incandescente crogiolo creatosi all’indomani del 13 maggio 1958 e, soprattutto, nel clima prodottosi il 16 maggio con l’incredibile fraternizzazione delle masse europee e musulmane sulla piazza del Forum della Ville Blanche, un gruppo di ufficiali paras, alla luce delle roventi esperienze della guerra d’Indocina e della maturazione politica avvenuta nei campi di prigionia viet-minh, pensò che fosse possibile costruire la nouvelle Algérie con il concorso delle forze più militanti dell’Fln.
Il progetto prevedeva l’inserimento nel Comitato di salute pubblica di Algeri dell’ex sindaco gauchiste e vicino alle posizioni dell’Fln Jacques Chevallier e la liberazione di Yacef Saadi, allora detenuto ad Algeri e condannato a morte per gravissimi reati di terrorismo quale responsabile della Zone autonome d’Alger dell’Fln al tempo della “battaglia di Algeri”, un suo appello alle forze del Front de libération nationale per un cessate il fuoco e l’integrazione di alcuni dirigenti dell’organizzazione clandestina nel Comitato di salute pubblica creato il 13 maggio ad Algeri. Tutto garantito e legittimato dall’esercito francese.
Un disegno organico, che aveva alle spalle il passo di due divisioni di paracadutisti, per porre fine, nella gioia, alla guerra d’Algeria. Come un’eco delle parole dell’emiro Abd el Kader: «Non chiedete mai quale sia l’origine di un uomo. Interrogatevi piuttosto sulla sua vita, il suo coraggio, le sue qualità. Solo così saprete chi è veramente. Se l’acqua che scorre in un fiume è sana, dolce e gradevole, allora viene da una fonte pura»…
Il “destino” e il generale de Gaulle vollero diversamente.
La Cagoule, quanto e come ha influito nel conflitto algerino?
Dobbiamo distinguere due fasi legate all’improbabile parabola nella storia della Francia della cosiddetta Cagoule, che al tempo della guerra d’Algeria venne proposta come una sorta di potentissima e ramificata organizzazione occulta, pianificata da un misterioso Presidium che godeva di importanti complicità ad altissimo livello negli ambienti giuridici, amministrativi, militari ed economici dello Stato. Come si vede, uno scenario che pare modellato su organizzazioni segrete, o “coperte”, di cui anche in Italia, in tempi recenti, abbiamo avuto più di qualche sentore.
In realtà, in quegli anni il suo ruolo effettivo è decisamente da ridimensionare. In quanto si ridusse a un semplice riflesso del peso effettivo che riuscì, anche qui in qualche modo, a esercitare in Francia grazie alle sue complicità massoniche e para-massoniche nel periodo tra le due guerre. mondiali.
La nuova Cagoule aveva infatti ereditato il ruolo della Cagoule di quegli anni, quella del Csar (Comité secret d’action révolutionnaire) guidato l’ingegnere del Genio navale Eugène Deloncle. Deloncle era un corso che fisicamente assomigliava molto a Mussolini. Intelligente, megalomane, mitomane, uomo dalle notevoli capacità organizzative, per certi versi carismatico, al fondo era un istrione naturale secondo quel ricorrente pattern sociologico ed esistenziale che spesso accomuna politici e magliari d’alto bordo.
Nel 1937, secondo le sue dichiarazioni, l’associazione poteva contare su 12mila uomini a Parigi e altri 40mila nel resto della Francia, cifre sicuramente gonfiate ma non del tutto prive di senso. Affabulazioni, complicità, connivenze, contatti, pagliacciate in maschera, cospirazioni e rituali massonici, c’erano tutti gli ingredienti per fare della Cagoule, in quegli anni difficili e tormentati, un’organizzazione temibile e pericolosa.
Gli uomini di Deloncle erano armati di fucili, mitra, pugnali e bombe a mano. All’ansia di acquisire armi dell’organizzazione sembra legato anche l’omicidio dei fratelli Rosselli, avvenuto nel 1937 a Bagnoles-de-l’Orne, quando un gruppo di cagoulard spacciò a colpi di pugnale i due fuoriusciti antifascisti riparati in Francia. L’assassinio di Carlo Rosselli, fondatore di Giustizia e libertà, e del fratello Nello sarebbe stato pagato con la fornitura di 100 mitra Beretta, consegnati presso il confine di Bardonecchia dal generale Mario Roatta, allora responsabile del servizio segreto italiano, in accordo con Galeazzo Ciano.
Quando il governo francese si decide a effettuare i primi arresti e i primi interrogatori, furono scoperti i primi arsenali. La rete di Deloncle si squagliò come neve al sole. 57 congiurati vennero arrestati e tutte le armi sequestrate. Deloncle e gli altri capi sfuggirono alla cattura.
Dopo l’occupazione tedesca, in nome dello stesso nazionalismo che animava gli aderenti, i resti della Cagoule, più o meno paradossalmente, si divideranno tra coloro che si schiereranno con il maresciallo Pétain e quanti parteciparono con determinazione e coraggio alla Resistenza armata. A conferma del carattere sfuggente e nebuloso dell’organizzazione come delle buona fede dei suoi militanti.
Nel libro vengono citati tanti nomi di personaggi storici sia impegnati sul campo sia dietro le linee, c’è tra questi un personaggio che secondo te meriterebbe di essere approfondito meglio sui libri di storia e perché.
Un nome su tutti. Quello del citato maggiore Jean Pouget, un personaggio che nella storiografia, amica od ostile di quelle vicende, non ha, misteriosamente, mai raggiunto il rango che gli spetta. Forse proprio a causa delle sue posizioni “eretiche” a 360 gradi.
Capitano di cavalleria, proveniente dall’Accademia militare francese, all’epoca della guerra in Indocina, Pouget aveva chiesto di essere trasferito nelle truppe paracadutiste. Atletico e con i lineamenti marcati di un capo indiano, durante la Seconda guerra mondiale era entrato nel più forte gruppo partigiano francese che agiva nella Savoia. Dopo la Liberazione era tornato nella cavalleria corazzata francese e aveva fatto parte dell’unità comandata dal generale Henri Navarre. Nessuna meraviglia dunque che quest’ultimo, avuta la nomina di comandante in capo delle forze francesi in Indocina nel maggio 1953, scegliesse Pouget come aiutante di campo.
In quell’incarico, Pouget sentiva di trovarsi in una posizione difficile a causa del distacco che vedeva crescere, ogni giorno, tra l’uomo che viveva all’ombra del comandante in capo e i vecchi compagni di battaglia. Decise di uscire dall’equivoco. Nel gennaio 1954 chiese il trasferimento al 1er Bataillon parachutistes coloniaux, lanciato il 13 febbraio 1954 su Muong Sai.
Poche settimane dopo, il 4 maggio, un paio di giorni prima del crollo della fortezza assediata e ormai senza più speranze, il capitano Pouget ottenne di farsi lanciare su Dien Bien Phu alla testa dei 125 uomini della terza compagnia del 1er Bpc. Più tardi, si disse che era andato a “espiare” gli errori del suo ex comandante. Forse, più semplicemente, Pouget si fece scaraventare nella fornace condannata di Dien Bien Phu per condividere sino all’ultimo il destino del suo battaglione e di tutti i difensori del più esposto lembo di terra francese in Indocina.
Ciò che Pouget visse a Dien Bien Phu e soprattutto nei campi di prigionia viet-minh lasciò in lui un segno profondo e inestinguibile per tutto il resto della sua vita.
Le riflessioni si fanno laceranti, ben al di là della routine “marcia a muori” dell’esercito professionale. In guerra, scriverà, decidere significa sempre scegliere la morte di qualcuno, talvolta la propria. In questa ottica, l’essenziale è che l’obiettivo ne valga la pena. O, almeno, che tale lo si possa credere…
Allo scoppio delle ostilità in Algeria il maggiore Pouget è uno di quei veterani d’Indocina ai quali questo tipo di conflitto non riserva alcun segreto, impazienti di gettarsi nella mischia con intelligenza e generosità, forti dell’esperienza acquisita. Ben presto però dovettero tutti rendersi conto che, ancora una volta, la nazione e il sistema non rispondevano alle aspettative imposte dalla nuova guerra moderna.
Fu in questo quadro, ancora non desolante ma già problematico, che al maggiore Pouget venne conferito l’incarico di “domare” i richiamati del campo di Aîn Rich. Erano circa 400, in maggioranza provenienti dalla regione parigina, e avevano gettato all’aria una stazione ferroviaria durante il tragitto che li portava all’imbarco a Marsiglia.
In Algeria vivevano confinati a 80 chilometri a sud di Bou Saada, oltre 200 chilometri a sud di Algeri, in totale anarchia senza che la decina di ufficiali e i 52 sottufficiali loro assegnati potessero fare niente per impedirlo.
Sporchi, cenciosi, abbandonati a se stessi, i compari di questa allegra e sgangherata brigata di “elettrici” pacifisti, il 228e Bataillon d’infanterie, si erano fatti beffe anche di uno stralunato generale capitato tra di loro per un incidente di volo. L’ordine di ridurli alla “ragione” venne conferito al maggiore Pouget. Un banale sfrido della Storia ma assai utile per capire il maggiore Pouget e il suo carisma.
Pouget conosceva i giovani e non era abituato a parlare e ad agire a cuor leggero. In poche settimane tutto fu regolato. Conquistandosi rapidamente la fiducia degli uomini con l’umanità e il carisma che contraddistinguono il trascinatore di uomini e il leader indiscusso, il maggiore condusse la sua orda di ammutinati allo scontro a fuoco con il nemico. In brevissimo tempo, con la forza trascinante dell’esempio, della disciplina e della dedizione, riuscì a motivare e a trasmutare quei ragazzi ammutinati, tanto che l’avventura di Pouget al campo di Aîn Rich si concluse con il conseguimento da parte di quasi tutti gli ex ribelli, dopo i lanci regolamentari, del brevetto di paracadutista militare.
Si trattava delle stesse persone che qualche settimana prima avevano distrutto una stazione ferroviaria per non essere trasferite in Algeria…
Paragoni Bab-El-Oued del 1962 alla Budapest del 1956, cosa lega queste due località?
Il paragone storico tra Bab-El-Oued, il quartiere popolare di Algeri a stragrande maggioranza europea, una sorta di Casbah al contrario, e la Budapest del 1956, epicentro della ribellione antisovietica ungherese, schiacciata dall’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia, verrà trattata diffusamente nel V volume della serie, interamente dedicato all’Oas.
Ci limiteremo quindi a pochi cenni storici per inquadrare la situazione.
Nel febbraio 1956, al XX Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, il segretario del Pcus Nikita Krusciov aveva denunciato in un rapporto “segreto” finito sulle pagine di tutti i giornali occidentali, il “culto della personalità” di Stalin e le sue violazioni del socialismo, causando una serie di violente ondate sismiche in tutta l’Europa orientale.
In Ungheria la disastrosa situazione economica aveva innescato un profondo risentimento nelle classi lavoratrici, scatenando progressivamente quella che sarebbe stata definita la “rivolta d’Ungheria” protrattasi dal 23 ottobre all’11 novembre 1956. Varie furono e sono le interpretazioni di quell’insurrezione. Per il blocco dell’Est era il tentativo di una rivoluzione fascista, per la sinistra moderata la spinta a creare un nuovo tipo di società socialista, per le cancellerie occidentali, una rivoluzione liberale spontanea.
Comunque fosse, le immagini del popolo magiaro in rivolta e delle terribili distruzioni causate dai carri armati del Patto di Varsavia a Budapest fecero il giro del mondo, innescando un immediato moto di allontanamento dal movimento comunista in tutto il mondo.
Quello scenario sarebbe stato replicato nel marzo1962 nei confronti dell’irriducibile quartiere della resistenza pied-noir, deciso a rifiutare la politica di liquidazione dell’Algeria da parte del generale de Gaulle.
Dopo la firma il 18 marzo 1962 a Évian degli accordi di pace tra la Francia e l’Fln, il 23 marzo la follia distruttiva gollista si abbatte sugli oppositori filo-francesi algerini. Il generale Ailleret attaccò il quartiere dei proletari europei di Algeri, Bab-el Oued, roccaforte dell’Oas, con 20mila soldati appoggiati da autoblindo, carri armati e aerei da caccia. Per tre giorni Bab-el-Oued, strenuamente difesa dall’Oas, viene bersagliata dall’esercito francese che la ridusse come la Budapest massacrata dai sovietici nel ‘56. Migliaia di arresti seguirono la distruzione apocalittica.
La “riduzione” di Bab el Oued durò tre giorni e alla fine della battaglia – condotta da truppe francesi contro cittadini francesi che difendevano il diritto sancito dalla Costituzione a restare legati alla madrepatria – i muri crivellati di pallottole, le finestre distrutte, le auto sventrate e accartocciate dal fuoco, i fili penzolanti delle tramvie, rimandavano in maniera inevitabile alla mente le immagini della Budapest del 1956 devastata dalla repressione delle forze corazzate del Patto di Varsavia guidate dall’Unione Sovietica.
Come detto, ne riparleremo diffusamente nel V volume.
Per un momento diamo uno sguardo al presente, dicci la tua sulla situazione in Niger e chiaramente il ruolo di Parigi.
Sono alle viste le prime evidenti fratture della cosiddetta Françafrique, il blocco economico e diplomatico franco-africano voluto da de Gaulle, che riassume la relazione neocoloniale tra la Francia e i suoi ex possedimenti nell’Africa subsahariana.
Anche qui, le radici della questione rimandano al periodo della guerra d’Algeria quando a Parigi venne deciso di disfarsi dei territori coloniali che ormai rendevano meno di quanto costavano, come ebbe a dichiarare seraficamente lo stesso de Gaulle. Rendendo evidente che cosa si debba intendere, concretamente e realmente, a proposito della cosiddetta de-colonizzazione, che in realtà non fu altro che una colonizzazione 2.0.
Un fenomeno storico di cui molta responsabilità, anche se con le comprensibili attenuanti del caso, rimonta alle troppo sopravvalutate leadership del Terzo mondo che non fecero altro che cadere nella trappola tesa dai poteri forti dell’economia e della diplomazia internazionale.
Anche qui non possiamo fare altro che rimandare il lettore interessato al VI e ultimo volume della serie, dedicato specificamente alla questione.
Ultima domanda prima dei saluti, puoi già anticiparci il tema del terzo volume de “La maledizione dei centurioni”?
Il testo s’intitola Le chemin de Croix dei centurioni. Dal malcontento alla dissidenza: il siluramento di Massu e descrive il lento e inesorabile distacco nella politica algerina tra gli obiettivi del governo de Gaulle e gli orizzonti dei militari francesi.
Un distacco che non era improvviso né improvvisato, bensì lucidamente pianificato in relazione diretta al consolidamento del potere nelle mani dell’anziano generale, diventato il primo presidente della V Repubblica.
Consolidamento che permise all’ex esule di Colombey di svelare sempre più chiaramente le sue carte, avendo la certezza di poter controllare, con ambiguità e ferocia sapientemente dosate, il malaise sempre più pronunciato dell’esercito francese. Che intendeva, a differenza dell’Eliseo, costruire un’Algeria rinnovata e fraterna, e un giorno fatalmente indipendente, e non la progettata e poi fallita dépendance nordafricana degli interessi neocoloniali di Parigi.
Tutti i drammi che vedremo dipanarsi successivamente – la settimana delle barricate, il putsch dei generali di Algeri, il sanguinoso sabotaggio delle proposta di pace di Si Salah, uno dei principali combattenti dell’insurrezione algerina, l’Oas, la devastazione di Bab el Oued, il massacro della rue d’Isly, il disarmo e l’abbandono delle milizie musulmane filo-francesi, gli harkis, l’esodo forzato in condizioni drammatiche di un milione di pied-noir, costretti a scegliere tra “la valigia o la bara”, –nascono in quei giorni.