«Kobanê sta per cadere», resistenza curda contro l’avanzata dell’IS
«Kobanê sta per cadere», queste le parole del premier turco Recep Tayyip Erdogan, «sono passati mesi ma non è stato raggiunto alcun obiettivo». Kobanê — ʿAyn al-ʿArab in arabo — è una città nel nord della Siria, nell’attuale Kurdistan siriano, a soli ottocento metri dal confine con la Turchia. Confine dal quale le forze turche, con diecimila soldati e venticinque carri armati M60 Patton dispiegati lungo la frontiera, rimangono a guardare mentre gli jihadisti issano le loro bandiere nella zona orientale di una città circondata e ormai allo stremo, una zona collinare strategica dalla quale controllare con l’artiglieria tutta l’area circostante. Definita la «Stalingrado del Vicino Oriente» dopo un primo tentativo di controllo con le armi a luglio 2014 e un secondo a settembre 2014 da parte dello Stato Islamico, è sotto assedio con combattimenti strada per strada dall’inizio di ottobre. Con la presa della città i miliziani dell’ISIS si assicurerebbero il controllo di un territorio vasto più di cento chilometri per i propri spostamenti e rifornimenti. L’unica resistenza quella dei curdi delle YPG (Unità di Difesa del Popolo) — ala militare del PYD, Partito dell’Unità democratica PYD —, che dopo aver fatto allontanare gli ultimi civili rimasti, hanno lottato senza sosta, sfiniti da un combattimento ormai corpo a corpo. I raid aerei della Coalizione internazionale, pur avendo colpito postazioni dell’IS, non sono bastati per fermare questa avanzata che tormenta incessantemente Kobanê con missili con una gittata di venti chilometri, contro i vecchi Kalashnikov in dotazione ai peshmerga. Un bombardamento indiscriminato quello delle milizie del Califfato che spinge allo stremo la resistenza curda che chiede armi e munizioni. Munizioni che finiscono, combattenti che preferiscono usare l’ultima pallottola contro se stessi per non finire nelle mani dell’ISIS, come Ceylan Ozalp, diciannovenne curda delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne), o che trasformano la propria vita nell’ultima arma a disposizione, come Arin Mirkan, madre di due bambini, comandante delle YPJ, che ha scelto di farsi esplodere vicino una postazione dell’ISIS, distruggendo un blindato e uccidendo «dozzine di componenti delle bande» dell’ISIS, come si legge nella dichiarazione rilasciata dal centro stampa delle YPG che riferisce inoltre che «abbiamo accertato che settantaquattro componenti delle bande sono stati uccisi nei combattimenti» e «quindici combattenti delle YPG/YPJ sono morti eroicamente resistendo agli attacchi contro Kobanê», morti aumentati in queste ultime ore di battaglia. Per l’Ondus (Osservatorio nazionale per i diritti umani) a Kobanê sono almeno quattrocento i morti accertati dal 16 settembre — duecentodiciannove jihadisti, centosessantaquattro combattenti curdi, nove di milizie alleate e venti civili, di cui quattro decapitati dall’ISIS —, morti che potrebbero essere il doppio nella realtà. Le combattenti curde sono temute perché la loro lotta sfonda le linee dell’ISIS non solo con le armi ma anche con la paura che incutono ai jihadisti perché se uccisi per mano di una donna non potrebbero andare al Paradiso dei martiri.
Lo Stato Islamico è praticamente arrivato alla frontiera turca, con alcuni colpi di mortaio ad oltrepassare la linea di confine — ferendo quattro civili — senza alcuna reazione turca. La NATO non esclude aiuti militari verso un suo alleato, come affermato a Varsavia da Jens Stoltenberg, segretario della Nato. E dopo l’apparente immobilità delle postazioni turche anche le ultime dichiarazioni del primo ministro turco Erdogan spingono nella direzione di un’operazione di terra. Operazione chiesta dopo aver scambiato la settimana scorsa, come riportato dal Times, «centottanta jihadisti per i suoi quarantasei ostaggi», dopo aver definito «i combattenti curdi uguali ai miliziani dell’ISIS», dopo essere stato accusato dal vicepresidente Joe Biden di aver fatto passare migliaia di terroristi dal suo confine — il quale poi ha chiesto scusa perché, come ha replicato Erdogan, «per noi erano solo turisti» —, dopo aver impedito ai volontari curdi di oltrepassare il confine per unirsi ai peshmerga, dopo che le guardie di frontiera turche hanno attaccato e accusato di appartenere al PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, gruppo armato attivo in Turchia che da trent’anni di lotta per l’indipendenza, alleato del PYD) alcuni profughi arrivati appunto da Kobanê in un esilio costante — settecento persone nella notte tra lunedì e martedì — e hanno lanciato gas lacrimogeni per allontanare dalla frontiera giornalisti e civili di maggioranza curda che osservavano i combattimenti, dopo che il primo ministro Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che «la Turchia invierà i propri militari in Siria solo se la strategia USA includerà anche la destituzione del presidente Bashar al Assad». Adesso anche il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano chiede alla comunità internazionale di far di più per «sostenere il governo siriano contro i terroristi», come l’inviato speciale dell’ONU in Siria, Staffan De Mistura, che chiede un’azione concreta e immediata. Sostegno chiesto anche da gruppi di cittadini curdi che in diverse città hanno manifestato la propria solidarietà alla comunità siriana in lotta contro la minaccia jihadista. A Bruxelles una settantina di dimostranti sono riusciti ad entrare nel Parlamento europeo. Le proteste più violente sono avvenute però in Turchia, dove la polizia è intervenuta con lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti, uccidendone uno e ferendone un altro con colpi da arma da fuoco nella provincia orientale di Mus Varto, con il coprifuoco imposto in sei distretti della regione sud-orientale di Mardin, vicino al confine siriano.
Purtroppo l’avanzata dello Stato Islamico continua non solo sul confine turco-siriano. Faleh al Issawi, vicepresidente del Consiglio provinciale di Al-Anbar, governatorato dell’Iraq al confine con la Siria, ha riferito che le milizie islamiche hanno preso il controllo dell’area di Mohammadi, dove le forze di sicurezza si sarebbero «ritirate senza combattere». L’ISIS conquista anche Derna, Libia. Qui però l’avanzata dei miliziani, che armati hanno sfilato per le vie della città inneggiando Abu Bakr al-Baghdadi, è avvenuta in seguito all’adesione all’ISIS del Consiglio della gioventù islamica della città, roccaforte storica dell’estremismo islamico libico.
L’IS fa sempre più paura, con il suo procedere non solo a colpi di armi da fuoco ma anche con la potente arma del controllo delle risorse idriche ed elettriche. Un gruppo terroristico che, usando le parole di Matthew Levitt, direttore del programma di antiterrorismo presso il Washington Institute for Near East Policy, «è il gruppo meglio finanziato che si sia mai visto», con introiti mensili di decine di milioni di dollari, «un milione di dollari al giorno» secondo le stime del Dipartimento del Tesoro americano.
Cameron nel suo intervento alla Camera dei Comuni li definisce «terroristi psicopatici che stanno cercando di ucciderci e dobbiamo realizzare che, ci piaccia o no, loro ci hanno già dichiarato guerra. Non abbiamo la possibilità di voltarci dall’altra parte, né sperare che questa cosa sparisca da sola».
Paola Mattavelli
8 ottobre 2014