Ruanda: vent’anni dopo
Correva l’anno 1994.
Nei 100 giorni, dal 6 aprile al 16 luglio, il Ruanda diventa un mattatoio e si apre una pagina tra le più sanguinose del secolo breve. I numeri da ecatombe sono tali da far accapponare la pelle: 800.000 (forse 1.000.000) persone massacrate a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati, donne stuprate (oggi sieropositive),400.000 i bambini rimasti orfani.
Una guerra fratricida che ha coinvolto i tre gruppi etnici che abitano il paese (tutsi, hutu e twa) e che da secoli condividevano la stessa lingua, religione e cultura. Con l’arrivo dei colonizzatori belgi e a seguito della loro politica si inocula nelle popolazioni locali il virus di una differenza di tipo razziale e di conseguenza economica e sociale dei tre gruppi. I tutsi (che fino al 1959 godono dell’appoggio belga) sono pochi e rappresentano l’aristocrazia terriera, gli Huti sono tanti (l’84 %) ma quasi tutti braccianti che ribellatisi saliranno al potere fino al 1994.
Poi l’inferno…
La Guardia Presidenziale e i gruppi paramilitari Interahamwe e Impuzamugambi cominciarono i massacri della popolazione Tutsi e degli Hutu moderati fino all’intervento francese con l’“Operazione Turquoise”.
Vent’anni dopo arriva il mea culpa di Ban Ki-moon che ha partecipando alla cerimonia commemorativa a Kigali ha dichiarato che l’Onu avrebbe dovuto e potuto, fare molto di più per fermare il genocidio, una vergogna non averlo fatto.
“In Ruanda ancora oggi ci sono ferite profonde da guarire”, è il commento di Bergoglio che invita anche “superare i pregiudizi e le divisioni etniche e proseguire sul cammino della riconciliazione”, una riconciliazione nazionale.
Cristian Cavacchioli
7 aprile 2014