Da Montanelli ad oggi: la nostra intervista a Paolo Liguori

Paolo Liguori è uno dei giornalisti più influenti d’Italia. Con una carriera che abbraccia decenni di esperienza nel campo del giornalismo, Liguori ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama mediatico italiano. Da giornalista investigativo a direttore di importanti testate giornalistiche, Liguori è diventato presto un punto di riferimento per molti nel mondo dell’informazione. In questa intervista abbiamo avuto l’opportunità di approfondire la sua visione sullo stato attuale del giornalismo, i suoi pensieri sul ruolo dei media nella società contemporanea e gli insegnamenti della sua “guida” Indro Montanelli ed è proprio da quest’ultimo argomento che è iniziata la nostra conversazione.
Nel 1985, hai avuto la possibilità di fare esperienza a Il Giornale, dove hai avuto modo di avvicinarti e di lavorare con Indro Montanelli. Quale insegnamento ti ha lasciato dal punto di vista professionale, ma soprattutto dal punto di vista umano?
Con Montanelli le due cose sono legate. È stata una grandissima esperienza dal punto di vista formativo; fondamentale. Montanelli voleva un giornale diverso da molti altri. Personalmente, mi ha insegnato l’importanza della qualità della scrittura. Scriveva in una maniera eccezionale e insegnava a scrivere in modo molto sintetico, diretto. Nel 1985, Il Giornale andava praticamente in senso opposto a quello che facevano tutti gli altri giornali, i quali miscelavano la narrazione con l’uso eccessivo di aggettivi, di storie, di racconti. Montanelli, invece, voleva delle cronache, delle cose molto secche, una scrittura – come si direbbe adesso – soggetto, verbo e complemento. Se si guardano i suoi articoli, le frasi sono molto stringate, senza eccessive ridondanze, artifici, avverbi o aggettivi. Questa era la scrittura di Montelli e questo è stato il primo insegnamento. L’altro è stato quello riguardante l’impostazione della linea del giornale: non faceva un giornale di opposizione vera e propria, però non era neanche un giornalismo di sostegno, perfino quando, alla fine, aveva dei governi o delle maggioranze che potevano strizzargli l’occhio.
Poi c’era un’altra terza cosa, se vogliamo, ossia il clima, l’ambiente del giornale. Era molto selettivo, professionale. C’erano dei grandissimi giornalisti, alcuni dei quali erano usciti dal Corriere, inviati all’estero, giornalisti che hanno fatto la storia del giornalismo e io ho avuto la possibilità di conoscerli.
Rimaniamo sul giornalismo. Ti sei occupato di molte inchieste durante la tua carriera…
Ti interrompo subito: all’inizio ho fatto molto giornalismo economico, poi il politico e poi feci una sola inchiesta, la mia principale, che mi chiese di coprire direttamente Montanelli, in merito a come erano stati spesi i fondi dell’Irpinia a dieci anni dal terremoto.
A cosa ha portato?
Ha provocato una commissione parlamentare che fu un’inchiesta osteggiata e presa molto male da De Mita perché Montanelli e De Mita avevano innescato un braccio di ferro molto forte. Addirittura, Montanelli scrisse un articolo di fondo in cui definiva De Mita “Il Padrino”, per i suoi metodi. Fu una sfida grossa al potere che Montanelli sostenne con la sola forza del giornale. Per sfidare De Mita in quegli anni serviva decisamente carattere. L’inchiesta non fu fatta con i magistrati che erano in quel momento completamente silenziosi ma, più che altro, sul campo, usando molte voci dell’opposizione che mi aiutarono a trovare fatti, circostanze, denunce.
Da giornalista, una professione che come tutte ha alti e bassi, hai mai avuto un momento di forte delusione che eri lì per dire che forse era il caso di guardare altrove?
Non credo. In quegli anni lì ho fatto questa inchiesta, facevo il mio lavoro e mi piaceva. Poi mi fu proposto di fare l’inviato e successivamente di fare il direttore al sabato. L’ho fatto fino al 1990, poi all’inizio del 1991, quando il sabato cambiò direzione, cambiò linea editoriale, mi guardai attorno e, tra le varie proposte, ho avuto Fininvest. In realtà, ci fu una proposta transitoria perché nel 1992 andai a Il Giorno, in qualità di direttore e dal 1993 iniziai con Mediaset a Studio Aperto. Pertanto, sono entrato in Mediaset mentre ero già stato direttore, ben due volte. E poi anche a Mediaset, quindi posso dire di non aver avuto delusioni.
Qual è un consiglio che daresti ai giovani che si affacciano adesso a questo tipo di professione, specie in relazione ai cambiamenti che ci sono stati negli ultimi anni con l’arrivo del digitale?
È tutto cambiato. O meglio, ho detto tutto, forse sarebbe meglio dire “molto”. Ad ogni modo, le fonti sono cambiate, la notizia circola comunque, a prescindere da te, poi c’è Internet, che orienta le agende, quindi i giornalisti devono stare più attenti oggi alla velocità ma anche alla verifica delle notizie. Un consiglio che darei, invece, è quello di non prendersi eccessivamente sul serio, perché credo che l’autoreferenzialità sia il male terribile del giornalismo di oggi e l’autoreferenzialità è praticamente irrefrenabile, non la puoi controllare con facilità. Noi giornalisti di vecchia scuola ce l’avevamo forse di meno perché erano diversi mezzi, oggi magari i nuovi giornalisti lavorano in un giornale, poi sognano di andare tre volte in televisione, pensano di raggiungere l’apice e si sentono già arrivati da qualche parte. Si prendono molto sul serio.
Allora, torniamo indietro nel tempo: qual è un consiglio che daresti al Paolo Liguori che si avvicina al mondo del lavoro per la prima volta?
Più che avvicinarmi al mondo del lavoro, ci sono finito dentro perché avevo la necessità di lavorare e il consiglio che mi davo era di spendersi senza pause, cioè di non lesinare nulla. Oggi, probabilmente, il consiglio potrebbe essere quello opposto, di rallentare, perché è un’attività che faccio da anni e anni, però non so se ci riesco, perché quando hai preso un ritmo – è come la maratona – è difficile poi fermarsi.
Volevamo chiederti un tuo ricordo dell’occupazione a Sant’Ivo alla Sapienza
Ho un ricordo da studente medio, quindi l’occupazione di Sant’Ivo alla Sapienza l’ho vista da sotto: c’era questo sostegno del movimento che era più universitario che altro: è un ricordo di inizio di un’epoca o di suggello di un’epoca che poi è finita subito perché è diventata un’altra cosa. Era iniziata come cosa molto di movimento e poco riguardante le formazioni politiche di ultrasinistra.
Sappiamo che sei un grande tifoso della Roma: come si piazzerà quest’anno la squadra di De Rossi?
Allora, penso che quest’anno già da ora si può dire di essere soddisfatti. Con precisione, in classifica, non lo saprei dire, perché tra il quarto e il sesto posto la differenza è pochissima di punti e le grandi sfide dirette le deve affrontare ora. Staremo a vedere già nelle partite determinanti che si giocheranno ad aprile.