La storia non è finita: intervista a Lucio Caracciolo

Se alla fine del XX secolo la tesi di Francis Fukuyama sul concetto di fine della storia ha raggiunto il suo apice di fortuna, la storia sembra oggi ben lontana dall’essere finita e i processi geopolitici appaiono ancora in continuo mutamento. Con Lucio Caracciolo, direttore Limes, abbiamo avuto la possibilità approfondire questo concetto, consapevoli che il processo di evoluzione sociale sia ben lontano dall’aver toccato il suo ipotetico picco e che la Storia sia alle porte di una nuova decisiva fase.
Con Lucio Caracciolo, giornalista, fondatore e direttore di Limes – una delle più importanti riviste italiane di geopolitica – abbiamo parlato del ruolo dell’analista da un punto di vista diacronico, approfondendo la crisi del pensiero post-ideologico con un focus sul ruolo che giocheranno nel prossimo futuro Stati Uniti, Cina, Germania e il gruppo dei paesi BRICS in ascesa.
Altroché al suo capolinea, la storia sembra appena cominciata.
Negli ultimi vent’anni, l’interesse per la geopolitica, in particolare in merito alla sfera divulgativa, sembra essere cresciuto in modo significativo. Com’è cambiato, secondo lei, il ruolo dell’analista geopolitico?
Nei trent’anni in cui mi sono occupato di geopolitica, quindi dalla nascita di Limes a oggi, c’è stato un fondamentale cambiamento. Quando abbiamo cominciato nel 1993, la geopolitica era un argomento tabù, adesso è diventato una chiacchiera da bar. Qualche stazione intermedia dove fermarsi, pertanto, sarebbe opportuna. Fino a quindici anni fa c’era un po’ di fumo attorno alla geopolitica ma dopo che nel mondo anglosassone questo termine è stato sdoganato – anche se quello che si fa in Italia, credo, sia qualcosa di diverso – abbiamo cominciato a recepirlo positivamente anche noi. In Italia, il lavoro dell’analista geopolitico è un lavoro che non è definibile in termini assoluti: ci sono alcuni principi del mestiere che prevedono il ragionare su casi specifici e l’aprirsi su punti di vista molto diversi dal proprio, anche opposti, con lo scopo di spiegare come funzionano i conflitti di potere e senza pretendere, con ciò, di stabilire delle leggi universali che valgono sempre.
Limes è nata nel 1993 – quattro anni dopo la caduta del Muro di Berlino – in un periodo caratterizzato da straordinari mutamenti: siccome quest’anno ricorre l’anniversario dei trentacinque anni dalla caduta del Muro, è possibile dire che il tempo dei limes sia effettivamente mutato in una prospettiva più liminale, o di soglia, quindi secondo un’ottica incentrata sul limen?
Il concerto di limen, cioè di soglia, non è riferito al fatto che non esistano più i limes, i limites, ovvero i confini. È riferito al fatto che siamo entrati in una fase in cui le vecchie certezze sono quasi tutte decadute e non si è ancora formato un sistema concettuale, prima che geopolitico, condiviso. Quella che noi chiamiamo transizione egemonica, cioè, in altre parole, la crisi dell’egemonia americana e l’assenza di una vera e propria alternativa, apre il campo anche all’immaginazione e, talvolta, anche al sentimento di pericolo. I criteri di fondo del nostro approccio, comunque, restano ancora validi.
Analizzando il periodo storico che va dal 1750 al 1850, lo storico Reinhard Koselleck ha parlato di età cerniera (Sattelzeit) cogliendone la profonda crisi di pensiero nella quale i concetti politici e sociali cambiano di significato e acquisiscono una dimensione definitiva. Assumendo un valore e un significato non solo per l’interpretazione del passato ma anche per la storia futura, oggi stiamo assistendo ad una nuova età cerniera
Premesso che tutte queste partizioni storiche sono essenzialmente soggettive e fatte per aprire una discussione piuttosto che per chiuderla, direi che sì, ci troviamo in un’età cerniera. Auspico che non duri cento anni anche perché, verosimilmente, siamo in una fase storica in cui il tempo e lo spazio sono molto più compressi di quanto non lo fossero nel Settecento. Accadono in un determinato lasso di tempo cronometrico una quantità di eventi e controventi che, magari, ai tempi di Koselleck, non erano appunto così concentrati e soprattutto il mondo è cambiato da un punto di vista quantitativo. Nel senso che ai tempi di Koselleck c’erano meno di un miliardo di persone sulla Terra, oggi sono più di otto e saranno più di dieci alla fine del secolo. Quindi sì, stiamo parlando del pianeta Terra ma di due pianeti molto diversi.
Entriamo più nello specifico: da locomotiva d’Europa, la Germania sta assumendo sempre più il ruolo di malato d’Europa. Recessione, debolezza politica e fenomeni di instabilità sociale. Come legge l’attuale crisi del ruolo della Germania come guida del Vecchio Continente?
Il vero perdente finora di questa fase di transizione è la Germania, almeno per quanto riguarda l’Europa, perché le basi della sua formidabile crescita post 1945 sono entrate in crisi: sia quelle economiche che culturali. Le ragioni economiche sono evidenti: fine dell’energia a basso costo garantita attraverso i tubi russi, crisi del mercato cinese, erosione dal sistema monetario fiscale centrato sull’Euro. Dal punto di vista culturale assistiamo alla fine della molle certezza della grande Svizzera: la scoperta che la guerra è alle porte. Questo lo rende un Paese (o, meglio, più Paesi in uno solo) anestetizzato, particolarmente isterico, con una crisi sistemica.
Parlando di elezioni americane che si svolgeranno a novembre prossimo, volevamo chiederle quanto conterà il ruolo delle dinamiche centrifughe delle amministrazioni locali e la competizione per la leadership con Pechino?
Gli USA sono repubblica e impero assieme, anche se quest’ultima parola molti hanno ancora difficoltà a pronunciarla. Molto spesso negli Stati Uniti si usa opporre questi due poli, ma in ogni caso c’è una connessione diretta. Essi hanno perso la voglia e la capacità di essere Impero nel momento in cui hanno deciso di provare a diventare globali, cosa che, evidentemente, era abbastanza impossibile ma è stata un’idea su cui gli americani hanno creduto per molto tempo. Questo può riflettersi soprattutto sulla disunione di classe, in particolare della cosiddetta middle class, bianca, protestante, che è una figura abbastanza retorica ma che oggi è in crisi, anche in termini istituzionali. In effetti alcune parti, Stati, stanno andando abbastanza fuori controllo. Un Paese con queste difficoltà non ha tempo di pensare al mondo, e viceversa. Quello che mi sorprende di questa fase è vedere come paesi considerati, fino a ieri, di medio livello tendano invece a prescindere dall’America.
Per quanto riguarda invece la sfida con Pechino?
È una competizione piuttosto strana. Non mi è chiaro quale sia l’unità di misura che permetta ai cinesi e agli americani di pretendere al primato. Non credo che la Cina sia un’alternativa globale degli Stati Uniti: sarà sempre una grande potenza ma sempre entro certi limiti, entro la sua sfera di influenza. Non ha le caratteristiche necessarie per proporsi come potenza mondiale.
Il gruppo dei paesi BRICS ha incluso altri cinque membri effettivi a partire dal primo gennaio di quest’anno. Quale potrebbe essere il futuro, le potenzialità e anche i possibili limiti di questo raggruppamento più allargato, di queste economie mondiali emergenti.
BRICS ovviamente è un marchio, non è un’alleanza. L’attuale cifra caratteristica planetaria sembra essere la decadenza delle alleanze e il definirsi di allineamenti opportunistici. Questa libertà di movimento che deriva dalla crisi americana segna la tendenza ad emergere di protagonisti che una volta appartenevano al terzo mondo e che adesso hanno un gran voglia di rivincita e affermazione, penso a paesi come l’India in particolare o anche alcuni paesi africani o asiatici che fino a ieri erano considerati attori assolutamente minori, comunque, non primari e che adesso, invece, si muovono con ambizioni forse esagerate sulla scena principe della geopolitica mondiale. Non esiste alcuna forza BRICS unita, ma attori che si riconoscono recipricamente come potenziali big mondiali per pretendere rispetto e fare i propri interessi contro gli USA ma anche contro l’egemonia in sé come concetto.