La Venere di Milo, quando una mutilazione diventa fascino eterno
Nome: Venere di Milo; altezza: 292 cm; peso: una tonnellata e mezza. Segni particolari: entrambe le braccia amputate. Ha viaggiato nella stiva di una nave non è affondata né andata a fuoco. Venere non ha sofferto!
Sebbene porti il dolce nome della sua isola di origine è a Parigi che diventa una diva.
Il suo arrivo al museo del Louvre nel 1821 suscita scalpore e la vediamo arrivare in un momento particolare della storia del museo: non era più il museo napoleonico che accoglieva i capolavori di tutta Europa perché nel frattempo l’impero era caduto. Nel 1815 e 1816 il museo si era svuotato e aveva cambiato nome diventando il museo reale del Louvre. I Borboni volevano restaurare il più possibile la propria grandezza dopo l’epoca napoleonica che, naturalmente, aveva segnato un’era. La Venere di Milo andò ad occupare uno spazio rimasto vuoto e così il museo poté esporre una statua nuova sensazionale e sbalorditiva. Viene collocata nel periodo classico, nel V secolo avanti Cristo. Quando la Venere di Milo arrivò a Parigi inizialmente fu attribuita ai più grandi scultori della Grecia classica. Si fecero persino i nomi di Prassitele, Discopas e Fidia con l’obiettivo di darle un maggior prestigio e di avvicinarla il più possibile all’epoca classica e ai visitatori. La verità, però, è che la statua è stata scolpita tra il 150 e il 50 a.C. da Alessandro figlio di Menide. Tutti i surrealisti fecero totalmente l’opposto degli archeologi. Infatti, esaltarono la sua mutilazione mettendola in contesti eccentrici e rendendola partecipe dello studio di un “Io” freudiano. Venne ritrovata spezzata in due parti nel 1820 sull’isola greca di Milo in un suo terreno da un contadino. Talvolta è stato indicato come Georgios Kentrotas, altrimenti come Theodoros Kentrotas e più raramente come Botonis. Di mestiere un “valutatore del valore dei campi”, cioè qualcosa come un mediatore dell’epoca. Kentrotas nascose l’opera la quale fu poi, tuttavia, sequestrata da alcuni ufficiali turchi. Un ufficiale della marina francese, Olivier Voutier, ne riconobbe il pregio e, grazie alla mediazione di Jules Dumont d’Urville e del Marchese di Rivière, ambasciatore francese presso gli Ottomani, riuscì a concluderne l’acquisto. Dopo alcuni interventi di restauro, la Venere di Milo fu presentata al re Luigi XVIII nel 1821 e collocata al museo del Louvre. Negli anni la Venere di Milo, un po’ come la Gioconda di Leonardo, non potette sfuggire al suo destino pop. Riprodotta in mille materiali, stampata su magliette in cui mastica l’iconica Big Babol o con gli occhiali Rayban indosso è conosciuta più di ogni altra scultura greca, perfino di quelle elleniche. Questa opera ci conferma che poco conta il prestigio, la appartenenza, la reale firma, si può fingere tutto tranne la lucentezza intellettuale, il fascino e la curiosità che annienta i secoli. La Venere di Milo fu studio per studenti di anatomia greca, spunto per la cultura americana pop, protagonista di cartoni animati, presente in spot televisivi, in quadri del ‘900, cortometraggi e film.
La contemplazione della Venere di Milo con cotanta stima a partire da Hugo, Dalì, Rodin e Bertolucci (che come tutti giocò al gioco di ipotizzarle due braccia nella pellicola “The dreamers” del 2003, dalla meravigliosa Eva Green) è un atto di verità. Impossibile spiegarle e mentirle le attrazioni carnali. E la venere di Milo è assolutamente carne viva.