Ciottoli e Proiettili: un’archeologia palestinese

Destrutturiamo gli edifici, smontiamo i monumenti, scomponiamo antichi luoghi, e catturiamo gli atomi essenziali che costituiscono qualsiasi bene archeologico: i suoi terrosi strati. È proprio di fronte alle più di diecimila unità stratigrafiche individuate nello scavo della Lower Brook Street di Winchester, che, l’archeologo britannico, Edward C. Harris, durante gli anni ‘70 del secolo scorso, sviluppò quel sistema stratigrafico, definito Matrix, che ancora oggi permette agli studiosi di riconoscere e sottolineare la varietà di interventi umani e naturali che costituiscono una sequenza stratigrafica, inserendo nella documentazione scientifica una quarta dimensione, quella temporale. Si parte da qualche ciottolo di selce e si arriva a ricostruire la storia di un sito, il quale, una volta valorizzato, diventa un bene. Gli strati, e i gingilli storici in essi contenuti, imperniati di memorie, istaurano un dialogo con le popolazioni presenti, apparendo non più come beni muti e immobili ma come oggetti e luoghi parlanti, imperniati della capacità di agire in modo intenzionale nel contesto sociale, generando cambiamenti e trasformazioni.
“Gli artefatti hanno infatti questa interessante ambigua ontologia: essi sono oggetti che necessariamente rimandano a un soggetto; in quanto azioni cristallizzate, sono la materializzazione di un’intenzionalità immateriale” (Viveiros de Castro).
Come oggetti animati, i beni archeologici racchiudono le azioni politiche, economiche, sociali e simboliche, di coloro che li hanno innalzati allo status di patrimoni. Quale è il desiderio sociologico che porta alla formazione di strati, beni e patrimoni? Il primitivo istinto dello scambio. La reciprocità comunicativa tra uomini e oggetti diventa l’essere stesso della società umana a cui corrisponde come sua negazione e brutale interruzione: la guerra. Tanti preziosi pezzi da museo partecipano alle storie dei luoghi come quei bambini che, teneri e inconsapevoli, manipolano i granelli di Beit Sahour e plasmano i terricci di Sebastia.
Beith Sahour e Sebastia, così come “La strada dei pellegrini” presso la vallata di Silwan, sono solo alcuni dei siti storici e archeologici palestinesi segnati dalle “nuove” ostilità in Medio Oriente. Durante il conflitto israelo-palestinese, continuano ad emergere in modo allarmante le spinose questioni intorno alla conservazione e alla valorizzazione dei beni archeologici e culturali palestinesi. I reperti palestinesi sono stati protagonisti di politiche di (non)conservazione da parte del governo israeliano che ha cercato di ridurre l’importanza e l’apporto di alcune culture al patrimonio collettivo. I siti archeologici scavati vicino alle comunità palestinesi sono stati spesso ignorati, mentre altri, al di fuori dei territori assediati, venivano considerati e preservati come parte del patrimonio culturale israeliano. Nel 1995, con gli Accordi di Oslo, si prevedeva l’istituzione di un Ministero del Turismo e delle Antichità responsabile della promozione e della conservazione del patrimonio palestinese. In questo contesto, l’archeologia ha svolto un ruolo fondamentale nella formazione e ricostruzione, strato per strato, di un ideale nazionale. Durante gli anni ’90, infatti, vennero permessi una serie di scavi, guidati dal Professore Jean Baptiste Humbert, intorno all’antica città greco-romana di Anthedon, uno dei più importanti porti di epoca ellenistica del Mediterraneo, costantemente danneggiato dai sistematici bombardamenti israeliani. Le problematiche intorno alle politiche di conservazione e valorizzazione del patrimonio materiale palestinese vengono aggravate anche dalla poca conoscenza, da parte sia delle comunità palestinesi che non, del valore culturale che quest’ultimo possiede. Risultato? I siti sono in continuo degrado, subendo ripetutamente gli scavi clandestini, i traffici illeciti di antichità e le periodiche operazioni militari israeliane. Tuttavia, il campo del restauro e della conservazione è stato di recente introdotto nel territorio Palestinese per costruire un ponte che possa ricollegare il passato al presente e, forse, anche al futuro. Con l’avanzare della guerra, gli scavi archeologici possono, in questi territori di crisi (ma non solo), aiutare a ricostruire, strato dopo strato, una certa consapevolezza storica.
Di fronte alla loro persistenza, come può un crimine di guerra rendere gli oggetti del passato, silenziosi?
Nel corso del tempo, tantissimi ciottoli colorati si sono inseguiti scivolando in quei pavimenti che per secoli sono stati costruiti, calpestati, decorati, distrutti e ricostruiti, e poi ripuliti, scavati, conservati, valorizzati e di nuovo distrutti e ancora una volta ricostruiti: un loop ininterrotto che crea forti monumenti di memorie che possono divorare anche il crimine più efferato, rendendolo così, completamente impotente.
Articolo a cura di Ilaria Ricci