Danny Torrance, ma dove sei sparito!
Quando entriamo in una storia, prevalentemente lo facciamo per due motivi: abbiamo un desiderio sfrenato di uscire dalla nostra quotidianità e quindi di allontanarci anche solo per un breve lasso di tempo, dalle nostre problematiche, nervosismi e piccole magagne che ci appaiono sempre come insormontabili (e poi, chissà se lo sono davvero). Nel secondo caso, siamo infettati da una passione così sfrenata per la lettura, che non ci basta vivere una vita sola, ma ne vogliamo vivere 10 o forse 100 o addirittura 1000.
Così facendo, ci facciamo travolgere in entrambi i casi da quei personaggi che trascorrono e passano nelle nostre vite attraverso le pagine di un libro, si fanno conoscere, spesso ci fanno innamorare di loro e ancora più frequentemente ci scatenano dentro un odio profondo per le loro frasi, i loro comportamenti e azioni. Che si tratti di affetto, che si tratti di disdegno, noi lettori entriamo nella vita di questi personaggi, spesso ci sostituiamo a loro e viviamo sulla nostra pelle TUTTO quello che stiamo leggendo.
In questo modo, ci ritroviamo a provare altri sentimenti improvvisi: sentiamo caldo, ci vengono i brividi improvvisamente, ci spunta un sorriso, ci scende una lacrima oppure proviamo un vero e profondo terrore. Leggendo un romanzo come “Shining” di Stephen King si può affermare con sicurezza e anche un profondo orgoglio, di percepire una quantità tale di sentimenti, di diverso tipo, tutti insieme e sovente nello stesso momento. Questo avviene grazie alle capacità di tale scrittore di descrivere in maniera così vivida tutto quello che popola un suo libro: i luoghi, gli avvenimenti, le situazioni, i protagonisti. Ecco, qui chi la fa padrone assoluto è il personaggio di Danny: un bambino ancora piccolo, per certi versi molto indifeso, per altri incredibilmente maturo. Senza di lui e tutto quello che si va a costruire intorno a lui, il romanzo non sarebbe mai esistito.
La sua dimensione fisica, ma soprattutto quella psicologica è talmente ricca di sfaccettature che sarebbe forse fin troppo lungo stare ad enumerarle tutte: importanti ognuna per conto suo, devono forzatamente coesistere in un corpo piccolo, che ancora si deve sviluppare, in una mente che è già complessa di suo e dove cozzano e si scontrano tante voci.
Quella che gli suggerisce di fidarsi del suo papà, verso il quale presenta un legame particolare, che non si può spiegare perché è nel sangue; la voce di Tony, che lo avvisa prima quando sta arrivando un pericolo e che risulta difficile da percepire, perché arriva quando vuole e tanto in fretta sparisce. La voce della sua mamma, che cerca di calmarlo e di credere a tutto quello che lui, con gli occhi gonfi e pieni di lacrime spaventate, le rivela stia succedendo all’interno dell’Overloock Hotel. La voce di Dick Halloran, il cuoco dell’albergo, che fin da subito ha capito di avere di fronte un ragazzino speciale, dotato di un’aura fuori dal comune, che accorrerà quando le cose si metteranno davvero male. Infine, le mille voci degli ospiti che durante gli anni passati hanno passeggiato per quei corridoi, hanno dormito in quelle stanze (e soprattutto la donna della camera 217) e che hanno festeggiato in abiti pieni di lustrini, con calici colmi di vino e di liquori, che hanno ucciso compiuto gesti discutibili.
Quando quindi un personaggio è davvero una struttura così complessa, tu regista che trasformi un romanzo come “Shining” in un film non puoi perdere questa realtà. Passi il fatto che trovare un attore che interpreti un bambino non sia facile, passi il fatto che l’ambientazione non debba essere per forza allineata con quella descritta nel libro, passi anche che la Wendy fosse bionda mentre nel film risulta castana scura. Ma non può passare e non può essere accettato (né ovviamente dallo scrittore, ma nemmeno dai lettori) che si perda per strada la complessità di un personaggio come quella di Danny Torrance. Crolla tutta la grossa base sulla quale viene costruita la storia: crolla il personaggio di Jack Torrance, crolla la possibilità di capire cosa lo stia trasformando in un uomo dalla mente traballante e piena di pensieri neri come il petrolio, crolla chi sia dunque il vero mostro.
Le trasposizioni libro/cinema non sono mai semplici e tendenzialmente non soddisfano mai gli autori e i lettori. Altre volte, invece, sono gli stessi registi che riescono a compiere scelte oculate, magari sacrificando grossi effetti speciali e colossali, in nome di un risultato più grande: mantenere intatta la storia, non modificandone l’inizio o la fine, restando fedeli ai personaggi descritti nel libro, proprio perché senza di loro l’intero romanzo non esiste.