La scultura di Louise Nevelson
A Roma al Museo del Corso si tiene in questi giorni la Mostra sulle settanta sculture della scultrice americana Louise Nevelson che, sin dagli anni Cinquanta usa materiali che “vengono lavorate ” dagli sfondi. Vi sono Ombre “proprie” e Ombre “portate”; queste opere così formate, che indagano nella quarta dimensione, si chiamano: ENVIRONMENT. Esse formano elementi totemici proprie delle culture dei nativi americani, ammirati dall’artista. L’assemblaggio avviene tridimensionalmente riprendendo l’idea di una scultura che non ritragga un retro ma viva, appunto, come si è accennato, la quarta dimensione entrando in relazione diretta con l’osservatore. Si definì lei stessa: “l’architetto della luce”, ed è proprio negli ultimi anni Cinquanta che userà il Bianco come colore essenziale, al posto del nero sempre privilegiato precedentemente, e le prime opere vengono presentate allora al DAWN’S WEDDING FEAST presso il MUSEUM OF MODERN ART OF NEW YORK nel 1959 e poi alla Biennale di Venezia nel 1962. Nel DAWN’S HOST ad esempio, del 1959, ella sostenne che nella sua arte : “Questa ricerca non esclude solo l’oggetto , ma i luoghi “tra” le albe e i crepuscoli, il mondo oggettivo, le sfere celesti, i luoghi tra le terre e il mare”. Viene, in ogni sua opera, sottolineata, la serialità compositiva e la ripetitività degli elementi; è il caso di grandi opere nere come HOMAGE TO THE UNIVERSE del 1968° THE FLAME OF THE SIX MILLION (1971). L’aumento di estensione delle opere lignee corrisponde al momento in cui passa alle grandi installazioni realizzate per gli spazi metropolitani nel 1969. Negli anni Settanta e Ottanta allinea elementi cartacei e lignei nei COLLAGES che le permettono di riprovare i piani prospettici e i rapporti cromatici tra le parti. Indica anche un’unione tra pittura e scultura. Il felice rapporto tra luce ed ombra nel raggiungere l’armonia è totale. Reitererà forme semplici con forme geometriche louise Nevelson
In una sua dichiarazione troviamo queste parole riguardo al suo lavoro di scultrice: “Quando guardo la città dal mio punto di vista, vedo New York come un’immensa scultura”. Nei primi anni Sessanta la Nevelson ricoprì tutto in oro: sia per il nero che per il bianco di fondo. Ella stessa non seppe darne una spiegazione univoca, un po’ per l’uso che dell’oro se ne faceva nelle antiche icone russe ed ebraiche, a cui, in qualche modo fu legata, un po’ per il fatto che fosse il colore presente nelle favole dei fanciulli di strada delle fiabe, appunto, Americane, in cui le vie erano lastricate d’oro. Si può sostenere, a ragion veduta che la sua opera, ostentando un insieme di elementi residuali di oggetti e materie (ad esempio molte sedie, o pezzi di esse), precedentemente già rielaborati da altre mani, ma da lei organizzati e ordinati in nuove forme, mostra in modo simultaneo un quid di vissuto e di “superato”, ma anche di “presente”.
La Nevelson comprende le fasi di riconoscimento dei frammenti oggettuali, di scelta, di omogeneizzazione cromatica delle loro forme, attraverso una pittura esclusivamente monocromatica, dell’assemblaggio e composizione, fino all’elevazione della forma organismo verticale e per lo più frontale, dotato di astanza. La sua straordinaria esperienza giunge negli anni ’50 a mostrare di aver raggiunto un’originalità linguistica destinata a svilupparsi sulla base di elementi sin qui posti in evidenza: i frammenti di legno di oggetti recuperati dalla strada, il colore nero, la struttura scatolare e le morfologie da “paesaggi oda tavolo” , del “totem”, della “colonna”, del “muro”; tale struttura linguistica sfocerà in complessi plastici che comporranno delle vere installazioni o ENVIRONMENT, come MOON GARDEN +ONE (1958), la SKY COLUMN PRESENCE (1959). Va ricordato poi, nel 1958 di aver esposto al Museum of Modern Art of New York, lo SKY CATHEDRAL, uni dei più grandi “muri” che forniva una completa maturità lessicale della Nevelson .
Sta di fatto che le sue sculture negli anni ’50 presentano le caratteristiche di volumi plastici strutturati quasi analogamente si sistemi di memoria neoplatonici rinascimentali suddivisi in LOCI (luoghi) e abitati da IMAGINES AGENTES (immagini evocative). Una parola sul bianco e l’oro va data. A tal proposito va ricordato di nuovo il suo DAWN’S WEDDING FEAST (1959), realizzata per la prima volta con legni dipinti totalmente in bianco e presentata i occasione della Mostra “SIXTEEN AMERICANS”, che, dal punto di vista percettivo suscita, nella forma di un continuum di opere di forma totemica, il senso di un Habitat percorribile, di un ENVIRONMENT in cui le forme definite dalle ombre narrano di un’estensione plastica modulata e attraversata da una lingua ermetica. A questa ambita qualità inedita perviene la Nevelson nel ’59 con i suoi Muri di “ASSEMBLAGES” la cui verticalità e articolazione nello spazio, secondo uno sviluppo lineare orizzontale, le consente di creare dei veri ambienti con differenti volumetrie plastiche, in cui tutte le sue forme sopra esposte (totem e quant’altro) sembrano raccogliere dal tessuto architettonico newyorkese la disparità delle quote dei grattacieli e degli altri edifici.
Le sue opere sembrano propagarsi in molteplici ramificazioni a partire dal basso, prima di disegnare una linea irregolare alla sommità. La disposizione casuale degli elementi richiama quella dei libri in una biblioteca, edificio in cui spesso tali sculture sono sistemate. Le scatole sono intagliate così da formare un disegno di superficie alla Matisse, mentre la struttura ritmica del loro assemblaggio richiama l’estetica minimalista. L’attenzione può concentrarsi sugli assemblaggi, i moduli, la ritmica, la luce, ecc…Si può rimanere colpiti dall’”effetto Gulliver”, cioè dal passaggio dal minuscolo al gigantesco, che ha fatto parlare Arp di “gingilli-mostri”. Parlando dell’ENVIRONMENT ella disse che “era una festa per se stessa”; in realtà, in questa definizione si cela una certa rivendicazione di assolutezza che si potrebbe spiegare anche come strategia di sopraffazione per catturare l’osservatore con le sole dimensioni e il cromatismo uniforme.
Essenziale diventa anche il suo principio della serialità applicato alle sue sculture che diventa il suo modo di procedere per accumulazione, che si è spesso accostato all’architettura che si rendeva necessaria a New York, come sistema urbano delle metropoli, ripetizione di modelli, accumulo di moduli formali. Lei accettava questo paragone, ma non si è mai sentita un architetto. Personalmente parlava in termini molto astratti della sua scultura, richiamandosi al suo maestro Hans Hofmann, dal quale apprese le scoperte del Cubismo. E sosteneva che: “Questo è il cubismo: spinge e tira. Positivo e negativo. Il Cubismo da un blocco spaziale per la luce”. Ma la Nevelson, anche nelle mode di quei suoi trent’anni di arte fu un modello per le donne soprattutto, e di ogni parte del mondo; influenzò e portò con se un tipo di “moda” non solo nel vestire, nel muoversi e nel fare arte, ma nell”Essere” ella stessa arte.
Michela Gabrielli
21 aprile 2013