Gino Severini, cantore di un’epoca
A cinquant’anni dalla scomparsa, la Fondazione Magnani Rocca celebra il caleidoscopico artista cortonese, attento cantore dell’Europa moderna. A Mamiano di Traversetolo (Pr), fino al 3 luglio 2016.
MAMIANO DI T.LO (Parma) – Dal Divisionismo alle avanguardie, ritornando al figurativo. Nella complessa Europa della prima metà del Novecento, Gino Severini (1883-1966) è stato uno dei pittori che più attentamente ha saputo raccontare l’evoluzione della società in quei difficili decenni, segnati dalle due guerre mondiali, dalle dittature totalitarie, e dal sopravvento della tecnologia sulla dimensione spirituale.
La grande antologica Severini. L’emozione e la regola, a cura di Daniela Fonti e Stefano Roffi, racconta l’opera di Severini attraverso 100 opere, 25 delle quali inedite in Italia.
Dal Divisionismo al Cubismo, passando per il Futurismo, il ritratto e la natura morta, Severini attraversa oltre mezzo secolo di storia dell’arte (e del pensiero) europea, riflettendo sulla tela quelli che sono stati i radicali e drammatici cambiamenti avvenuti nella società tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra.
Si formò a Roma, dove giunse appena diciottenne come allievo di Giacomo Balla, che lo avviò al Divisionismo, una corrente che Severini frequentò per poco, attratto dai venti di novità che spiravano da Parigi, fucina dell’avanguardia cubista prima e futurista poi. Vi si recò infatti nel 1906, e vi conobbe Pablo Picasso, Georges Braque, Juan Gris e il poeta Guillaume Apollinaire, le cui atmosfere ritorneranno sovente nelle sue tele più intense degli anni Trenta, che esprimono l’angoscia della moderna civiltà industriale, su cui grava anche la cappa dei totalitarismi.
E particolarmente travagliati furono i decenni che lo videro iniziare e consolidare la sua carriera d’artista. Dal tramonto dell’Ottocento con gli ultimi echi impressionisti e il Positivismo, a quel Novecento angoscioso che vide la nascita dei nazionalismi e l’inasprirsi del clima diplomatico internazionale, preludio alle trincee della Grande Guerra; si avvertiva la “morte di Dio”, come aveva annunciato la rivoluzionaria filosofia di Nietzsche; e nonostante le apparenze, morì un po’ anche l’uomo, che si staccò definitivamente da quelle millenarie radici arcaiche rurali, sulle quali, sino ad allora, si era retta l’umanità, o almeno la società occidentale. paradossalmente, ironicamente o sadicamente, l’arte europea che va dal 1880 al 1945 esprime una maturità e un’estetica di tragica bellezza, di cui il mondo non aveva conosciuto l’eguale, quanto a capacità di compenetrare lo stato d’animo corrente della società. E Gino Severini è uno dei pochi artisti che pur frequentando stili diversi, assai lontani fra loro, mai si discosta dall’intensità espressiva e concettuale.
L’antologica parmense è organizzata per temi (ordinati al loro interno in maniera cronologica), ne ripercorre il cammino artistico, che lo vide esordire con le tenui, intime, atmosfere di ritratti e interni in stile divisionista, caratterizzate da un’impostazione ancora ottocentesca, e legate a pacifici ambienti familiari, dove la luce entra con delicatezza. Ritratti che sembrano uscire da un album di famiglia, specchio di una società atavica, immobile ma operosa, legata a ritmi immutabili. Tuttavia, il trasferimento a Parigi (dove rimarrà quasi ininterrottamente dal 1906 al 1930), porta nella sua pittura importanti, radicali cambiamenti; gli studi formali di Braque e Picasso lo interessano da vicino, e nel 1913 appaiono i primi ritratti cubisti, quello del Dottor Giordani, e di madame Monfort. Se in precedenza Severini lasciava ampio spazio alla descrizione formale della figura, con un andamento poetico degno di Pascoli, adesso l’attenzione è dedicata esclusivamente ai rapporti geometrici, con la figura interamente scomposta e ridefinita. Tuttavia, il ritorno al figurativo, giova sicuramente alla pittura di Severini, sempre pregna di poesia, che si esplica in particolare nei ritratti, il soggetto pittorico più intenso e affascinante.
L’Autoritratto e il Ritratto di Jeanne (la donna sposata a Parigi), entrambi del 1916, sono caratterizzati dall’espressività malinconica degli sguardi, dall’incarnato pallido che si stacca appena dallo sfondo appena più scuro. Una sospensione nel tempo e nello spazio, metafora dell’angoscia che stringeva l’Europa in quel duro 1916, terzo anno di guerra. Salvo fugaci ritorni al Cubismo, i ritratti di Severini resteranno improntato al figurativo, seguace anch’egli del sofficiano “ritorno all’ordine”, e vicino al modernismo della Secessione romana. Il Ritratto di Gina (la figlia primogenita) e il Ritratto di Jeanne, entrambi del ’27, portano ancora nello sguardo quella struggente pensosità che riflette un’epoca e una condizione esistenziale; la Grande Guerra ha lasciate dietro di sé ferite ancora aperte, l’Italia e la Russia si sono avviate verso la dittatura, la Germania è sull’orlo della guerra civile; non c’è pace in Europa, e le luci parigine del Carrefour Vavin sono soltanto l’ultima illusione prima del baratro. I volti di Severini sembrano uscire da una pagina di Moravia o di Pirandello, portano su di sé il peso di una condizione ormai sradicata, in cui è necessario ripensare a una proprio dimensione nella società. Cosa non facile in un mondo che va in pezzi; un destino non accettato da tutti, e la marchesa de Seta, ritratta nel ’37, incarna la dandy controcorrente animata da una coscienza femminista (fonderà nel 1946 il Movimento Italiano Femminile); una tela intensa, dominata dal blu dell’abito della marchesa, cui si accosta l’azzurro dello sguardo, fisso davanti a sé, emblema di una personalità volitiva.
La statura artistica di Severini sta nel saper cogliere queste sfumature psicologiche, e inserirle in una narrazione pittorica che immortala un’epoca. La sua evoluzione ritrattistica prosegue negli anni, quando si dedica alla maschera, tema affascinante quanto disturbante, in particolar modo quando la maschera in questione è Pierrot (anche se sotto le simili spoglie di Pulcinella). La struggente acquaforte La serenità di Pulcinella (1937), con la maschera impegnata a dipingere su un isolotto circondato da tempeste e mostri marini, ha un forte sapore autobiografico e rappresenta uno struggente tentativo di trasferire su una dimensione più accettabile quei difficili anni Trenta, cercando scampo nell’arte come forma d’isolamento dalla violenza della società. Parimenti drammatico il Pulcinella dai riflessi viola (1942), che stringe malinconicamente una chitarra, stagliandosi su un colorato sfondo che richiama analoghi esperimenti di Matisse.
Le tele Odalisca con specchio (1942 e Petite fille en rouge (1946), pur con leggeri accenni al Cubismo, sono caratterizzate da vividi colori, e portano dentro di sé l’atmosfera sofisticata delle pellicole di Lang e Von Sternberg.
La pittura di Severini conoscerà un alto spessore anche nella sua stagione più marcatamente decorativa, suddivisa in una fase “laica” e una “religiosa”; in quest’ultima, si avvicina alla filosofia di Maritain, che attribuisce all’arte sacra valore ideografico; Severini pone in primo piano la tecnica, mentre sul piano linguistico si muove disinvoltamente fra reminiscenze paleocristiane e bizantine giungendo fino all’arte dei giorni nostri, come appare chiaro dai dipinti eseguiti per la chiesa svizzera di La Roche. Più originale e concettualmente importante, ci sembra invece quella fase “laica”, che si subisce gli echi della grandiosità della ritrattistica romana, come accade anche per Alberto Savinio e Mario Sironi. Ne scaturiscono paesaggi sospesi di moderna magnificenza, dall’ineffabile spigolosità urbana, testimonianza di cambiamenti vissuti con speranza e insieme angoscia, con orgoglio e timore (Le arti, 1933).
La romanità torna sovente anche nella natura morta, classico soggetto artistico che Severini ha più volte affrontato nel corso della sua attività, ancora una volta spaziando dal Cubismo, al Futurismo, al figurativo classico.
Dimensione chiave della modernità novecentesca, la città, che conobbe un rapido sviluppo, e avviando quella radicale trasformazione del paesaggio che nel secondo dopoguerra toccherà il suo sciagurato apice. Severini racconta nelle sue tele questo drammatico passaggio; dai lirici paesaggi campestre del primo Novecento, con carri e pagliai, si passa al dinamismo urbano visto in chiave cubista e futurista; dalle linee e dai colori che s’intersecano e si sovrappongono, soffia una ventata d’entusiasmo per le nuove conquiste della tecnica, (L’autobus, 1913), che sconvolgono il ritmo di vita cittadino, lo accelerano, lo spingono verso una ridefinizione dei rapporti relazionali porterà una rinnovata solitudine. Ne scrive Pirandello, ne scrive Moravia, e altri come loro, e pur senza la forza del modernismo tedesco, anche Severini si fa carico di raccontare e interpretare l’Europa del suo tempo.