Quando La Tosca approda al Regio

Vedere un’opera lirica a Teatro, per gli amanti del genere, è sempre un’emozione molto forte. Va da sé che tutto sta (dici poco, dici tanto) nella capacità di saper fare battere il cuore, di far venire la pelle d’oca e questa grossa, enorme responsabilità spetta non solo al regista, ma anche e soprattutto a chi sul palcoscenico ci deve recitare e/o cantare. Quando poi parliamo di un’opera come La Tosca di Giacomo Puccini, che ha alle sue spalle più di 100 anni di storia e numerose quanto differenti rappresentazioni, allora le difficoltà di riuscire a scatenare determinati sentimenti aumentano esponenzialmente.
Torino è città coraggiosa, negli ultimi anni teatro essa stessa di grandi eventi culturali e musicali; non poteva dunque farsi scappare la possibilità di ospitare al Teatro Regio questa rappresentazione, la quale è andata in scena da martedì 9 febbraio fino a domenica 21 febbraio, registrando quasi ogni sera il tutto esaurito. Ci si chiede: ma come è mai possibile che un’opera così datata possa ancora oggi essere vista, rivista, stravista, quando c’è qualcuno che quasi quasi conosce i dialoghi a memoria? La bellezza di un’opera simile sta nella sua dirompente attualità, che la rende ancora così appetibile e interessante agli occhi del pubblico. Guardandosi tra gli spalti, si vedono visi giovani (alcuni, ahimè, trascinati dai genitori o professori del liceo e dunque non così entusiasti), altri magari recatisi spontaneamente, curiosi anche di conoscere una forma d’arte così antica, eppur ancora così viva e presente; si riconoscono volti più agée, di persone che ancora vogliono poter passare quelle ore della serata in compagnia di Tosca e Mario. Ciò che accomuna tutti gli spettatori, di qualsiasi età, è la tensione e gli occhi brillanti con cui seguono l’intera vicenda: trama politica (per certi versi), storia d’amore per altri. Ma inutile dilungarsi su quest’ultima, la quale è facilmente reperibile in rete, quanto invece risulta assai più interessante notare le scelte scenografiche: tutto si svolge su questa plancia ovale rotante, dove i personaggi si muovono e cantano i loro dialoghi, ma questo doppio movimento (a volte assente per evitare agli spettatori sensazioni di nausea) aiuta a creare e aumentare la drammaticità della storia. Al termine del primo atto, proprio come se anche la stessa scenografia andasse in pausa, le colonne che fanno da perimetro a questa plancia si alzano e si sollevano da terra, come per chiudere il primo capitolo della storia e far già capire che l’ambientazione successiva sarà diversa. Profondamente toccanti i momenti in cui Tosca e Mario, i due amanti divisi da ragioni politiche, cantano insieme e separatamente, per poter esprimere il loro dolore e la loro rabbia nei confronti dell’enorme ingiustizia che ha riempito e disorientato le loro vite. Dopo l’assolo di Tosca, anche il secondo atto scenograficamente si chiude con un piccolo trucco teatrale, ma di grande effetto: la protagonista, dilaniata dal gesto compiuto solo per amore di Mario, si allontana dalla scena andando in profondità, come se stesse attraversando un lungo corridoio che gli spettatori vedono di fronte a loro.
Nonostante la durata di circa due ore e mezza (con i giusti intervalli), l’attenzione in sala non scende mai sotto un certo livello: anche chi già conosce la fine della storia e quindi non dovrebbe più stupirsi della struggente fine di Mario, ha gli occhi lucidi e commossi, come se vedesse il tutto per la prima volta. La potenza della Tosca di Giacomo Puccini è proprio questa: far uscire il pubblico dal teatro psicologicamente scombussolato, ma assolutamente sicuro di aver assistito a qualcosa di molto potente e stupendo.