A(r)miamoci di crisi

Perennemente in crisi, economica, di coscienza, di identità. Una crisi che si insinua e si sente fin nelle ossa, come un vento gelido. Tuttavia la parola greca krisis non è negativa e paralizzante, significa “scelta” e deriva dal verbo greco krino, cioè separare, discernere, giudicare, valutare. Un termine mutuato dal mondo agricolo, così capace di rendere visibili e lampanti concetti altrimenti astratti, ed indica la separazione della parte buona del frumento da quella cattiva, eliminando paglia e pula. La crisi, cioè, dovrebbe essere uno stato momentaneo, di transizione, per intraprendere una direzione nuova, e non una condizione paludosa, una ghigliottina di risorse e possibilità, cappio al collo di nuove e vecchie generazioni. Le prime che non riescono a decollare, le seconde che non possono abdicare perché non c’è un testimone da passare. Non è un paese per vecchi, ma nemmeno un paese per i giovani.
Il mondo in crisi è un perenne romanzo distopico?
«Forse la terra è l’inferno interminabile di un altro pianeta», diceva Aldous Huxley, e la realtà che ci bombarda, letteralmente e metaforicamente, dalle pagine dei giornali e dalle immagini televisive sembra proprio essere un rosario ininterrotto di tragiche emergenze. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», ma il quotidiano di oggi sembra essere infarcito del terrore di continui attentati, del dramma di milioni di profughi-migranti-emigranti-immigrati, di barriere chiuse e forse mai veramente aperte, di sconvolgimenti finanziari, di incertezza lavorativa nonché precarietà umana. «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza» scriveva George Orwell in 1984, ed è curioso di come sempre più ci si stia avviando in questa direzione.
In crisi ed eternamente liquidi
«Mi riconosco / immagine / passeggera», recita Ungaretti, e mai come nell’epoca attuale si respira questo smarrimento. Siamo liquidi, ha centrato nel segno Zygmunt Bauman con la sua ormai abusata definizione di una società che galleggia in un universo dai contorni sempre più sfumati e sbiaditi, dove tutto è percepito come instabile e provvisorio. Ipertecnologizzati, globali e costantemente interconnessi, con culture e razze che si fondono e confondono, eppure ubriachi di velocità, informazioni e occasioni. Consumatori ossessivi ed ingordi, storditi da una onnivora ed effimera libertà che ci lascia sempre più soli e smarriti, incapaci di cavalcare un interminabile ed iperbolico cambiamento che continuamente ci disarciona. L’eterno istante che instancabilmente bussa alla porta.
In crisi, appesi eppur non siamo soli
«Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera», le parole di Quasimodo arrivano al cuore della questione. Il senso di incertezza e provvisorietà di questa post-modernità lo si ritrova intatto attraverso i secoli e riguarda l’umano e quel suo cuore maledettamente bisognoso che però si fa fatica ad ascoltare.
Eugenio Montale faceva argomento della propria poesia «la condizione umana in sé considerata: non questo o quello avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l’essenziale col transitorio (…). Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia».
Forse qui sta il punto, che il post-uomo è in balia di un mondo dal quale si sente risucchiato, e per non soccombere ha pensato bene di spegnere il muscolo pulsante e di affidarsi solamente alla razionalità e non alla ragione, o tuttalpiù all’istinto, quello così faticosamente addomesticato che rivendica un diritto che gli era stato tolto. Siamo diventati animali intelligenti, individualisti ed egoisti, che non sanno più farsi domande, disattenti agli altri e al vero nostro “io”, quello interno, che non si può fotografare e photoshoppare, surfisti nelle relazioni e nello sharing forsennato.
Porsi questioni fa male, fa rendere coscienti che alla fine del nostro “tutto” c’è il “nulla, come scriveva Leopardi: «e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia» e che «il nascere istesso dell’uomo, cioè il cominciamento della sua vita, è un pericolo della vita».
Come salvarsi dalla crisi?
Solo le cosiddette domande esistenziali possono farlo, rendendo unico e irripetibile ogni uomo, seppur così simile ai suoi simili. Come non venir toccati dalla poesia Disattenzione, in cui la Szymborska ci illumina con la profonda semplicità delle sue parole, che non vanno spiegate: «Ieri mi sono comportata male nel cosmo. Ho passato tutto il giorno senza fare domande, senza stupirmi di niente. Ho svolto attività quotidiane, come se ciò fosse tutto il dovuto. Inspirazione, espirazione, un passo dopo l’altro, incombenze, ma senza un pensiero che andasse più in là dell’uscire di casa e del tornarmene a casa. Il mondo avrebbe potuto essere preso per un mondo folle, e io l’ho preso solo per uso ordinario. Nessun come e perché – e da dove è saltato fuori uno così – e a che gli servono tanti dettagli in movimento. Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro (e qui un paragone che mi è mancato). Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti perfino nell’ambito ristretto d’un batter d’occhio. Su un tavolo più giovane da una mano d’un giorno più giovane il pane di ieri era tagliato diversamente. Le nuvole erano come non mai e la pioggia era come non mai, poiché dopotutto cadeva con gocce diverse. La terra girava intorno al proprio asse, ma già in uno spazio lasciato per sempre. E’ durato 24 ore buone. 1440 minuti di occasioni. 86.400 secondi in visione. Il savoir-vivre cosmico, benché taccia sul nostro conto, tuttavia esige qualcosa da noi: un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal e una partecipazione stupita a questo gioco con regole ignote».
Altra indicazione ci arriva da Seneca, che nelle Epistulae morales ad Lucilium faceva notare quanto la vita non sia breve, tale la rendiamo noi: «Mentre si attende di vivere, la vita passa: comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire».