L’uomo del lavoro o il lavoro dell’uomo?
1 maggio 1886. In questa data ha inizio lo sciopero generale che porterà a ottenere le otto ore lavorative negli Stati Uniti. Questo evento oggi si commemora come “Primo maggio”, Festa dei lavoratori o Festa del lavoro nella maggior parte delle nazioni industrializzate. La data ricorda anche le vittime degli incidenti di Chicago che hanno segnato appunto l’inizio delle lotte operaie.
Oggi questa data verrà celebrata con manifestazioni e concerti ma la parola lavoro ci riporta presente un problema pressante cioè la sua mancanza.
La nostra Costituzione parla chiaro nell’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e nell’articolo 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Il lavoro è un diritto e nello stesso tempo un dovere. Molte volte però si è costretti a migrare come le rondini in cerca del luogo favorevole. Siamo un popolo in movimento ora come in passato, cambiano le caratteristiche del viaggio (come il modo di viaggiare, le aspettative e le fatiche) ma oggi come ieri ci si muove pieni di desiderio e di nostalgia.
La fine dell’800 e i primi anni del ‘900 sono stati testimoni oltre all’unificazione politica e amministrativa del nostro Paese anche dell’esodo di venticinque milioni di connazionali. Cosa li spingeva ad allontanarsi dai propri affetti e dalle proprie case? Nonostante le condizioni storico-sociali differenti, la spinta primaria rimane sempre la stessa: la speranza di un lavoro che possa garantire il sostentamento per se stessi e le proprie famiglie. Oggi come allora i protagonisti di questo esodo arrivano a toccare ogni punto del pianeta, non c’è confine che tenga in questa ricerca, nemmeno allora quando spostarsi era immensamente più faticoso come tempi e condizioni. Nonostante la sproporzione tra Nord e Sud, nessuna regione fu risparmiata da questo flusso migratorio. Come oggi. E chi resta è coinvolto quanto chi parte perché la mancanza di lavoro e questo movimento che suscita per la sua ricerca, cambia radicalmente non solo chi si muove ma anche chi attende. Giovanni Pascoli fu uno dei pochi intellettuali del Novecento a dare voce nelle sue poesie a questa umanità dai mille volti. Leggendo la sua poesia Lavandare non si può rimane indifferenti di fronte a questi versi che ci parlano direttamente al cuore: «Il vento soffia e nevica la frasca, / e tu non torni ancora al tuo paese! / Quando partisti, come son rimasta! / Come l’aratro in mezzo alla maggese».
Universale è anche la necessità di chi parte di comunicare, di sapere, di mantenere un contatto con chi e con ciò che è stato lasciato. Oggi internet aiuta ad accorciare le distanze, a guardarsi in faccia e sentire la voce, a mandarsi le immagini oltre che i pensieri senza le lunghe attese di altri tempi. I tempi dove il sentimento correva sulla carta, dove le proprie domande venivano affidate alla certa speranza che arrivassero. Rileggendo le lettere dei migranti del primo Novecento ritroviamo le domande semplici di persone semplici, come in questa lettera scritta nel 1913 indirizzata da Salvatore (proprio così, solo un nome!) alla propria sposa, che si conclude chiedendo: «E le nostre campagne hanno dato buoni prodotti? L’uva, le castagne, promettono bene? Saluterai il nonno e la nonna ripetendo loro le vecchie antifone, cioè che serbino il lavoro ai giovani, le cognate, I cognati, con I rispettivi figli, e tu con Umberto abbiti infiniti baci dal tuo aff.mo padre e sposo».
Queste parole ci testimoniano quanto il lavoro sia imprescindibile dalle persone e le persone siano qualificate dal lavoro e in una società dove questo legame entra in crisi c’è il rischio che vada in crisi anche l’umano. Questa giornata dovrebbe tenere acceso il legame tra ciò che si è e ciò che si fa, tra l’uomo che fa il lavoro e il lavoro che fa l’uomo.
di Paola Mattavelli