Nel blu, dipinto di blu. Per un’archeologia subacquea del Mediterraneo
Cosparso da secolari concrezioni saline, un guerriero di bronzo emergeva timido dalla superficie bluastra del mediterraneo stringendo trepidante la mano ad un sommozzatore romano di passaggio.
Fu una scoperta casuale quella del sub dilettante, Stefano Mariottini, quando nel 1972, a 230 metri dalla costa calabrese di Riace Marina, ad 8 metri di profondità, rinvenne una coppia di statue denominate in seguito, “I Bronzi di Riace”. I due reperti, testimoni del pensiero tecnico e dell’abilità artigianale della Grecia del quinto secolo a.C., esprimono una notevole sensazione di potenza ed una rilevante elasticità muscolare realizzata attraverso la formulazione della posizione a chiasmo. Sono due corpi costituiti da centinaia di strisce d’argilla sovrapposte e mescolate insieme per definire la forma e per manipolare la massa. Durante i differenti restauri, gli studiosi hanno notato la presenza di tracce di chiodi utilizzati dagli artisti per mantenere ferme le strutture durante i processi di fusione del metallo. Ambasciatori della cultura del fuoco, la statua A e la statua B di Riace ricordano eroi e divinità solidificati e cristallizzati nel bronzo. I tenoni in piombo alla base dei piedi indicano come fossero state in precedenza stabilizzate e fissate su dei basamenti, probabilmente per essere poi esposte in pubblico. I due militi di metallo, in quanto simboli della manifattura greca, divennero presto protagonisti del commercio antiquario sviluppatosi lungo le correnti del mediterraneo già a partire dal primo secolo a.C. Qualcosa in merito si può ipotizzare riguardo ad una nave vittima di naufragio sulle coste calabre e sulla quale venivano presumibilmente trasportate le due opere d’arte. Oggi, esposte nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, rappresentano un caso esemplare della ricerca archeologica subacquea nel mediterraneo con le sue difficili contraddizioni e problematiche metodologiche. Nel 1900, a largo della costa di Antikythera (Grecia), un gruppo di pescatori individuò i resti di una nave risalente al primo secolo a.C. Alcune istituzioni vennero coinvolte nelle fasi di recupero rese difficili sia a causa della considerevole profondità in cui giaceva il relitto (55 m. ca.) sia dalla inadeguata attrezzatura dei palombari. L’archeologia subacquea nel corso dei decenni ha subito una lenta evoluzione che ha portato ad un importante sviluppo nel campo delle conoscenze e delle tecniche applicate. Seppure ispirata dalle medesime regole che operano nella disciplina terrestre, proprio a causa del diverso elemento, l’operatore si ritrova a confrontarsi con non poche difficoltà riguardanti ogni intervento di studio, di gestione e tutela del patrimonio storico marittimo. Problematiche aggravate anche dalla mancanza in alcuni paesi del Mediterraneo, di organi istituzionali predisposti alla valorizzazione dei beni culturali subacquei: in Algeria non esiste né un ufficio preposto in maniera specifica alla salvaguardia di tale patrimonio né una legge ad hoc. Per l’archeologo che ricostruisce le storie delle acque, il mar mediterraneo rappresenta un prezioso museo sommerso colmo di relitti e reperti appesi in cornici di corallo ed esposti lungo rocciose falesie.
Articolo a cura di Ilaria Ricci