Vattimo, la voce forte del pensiero debole
Si spegne una delle voci filosofiche più originali del nostro tempo, traghettatore tra due secoli dell’ermeneutica europea. È infatti del 19 settembre la notizia della scomparsa di Gianni Vattimo, uomo e intellettuale complesso, capace di armonizzare nella sua vita –oltre che nel suo pensiero– istanze solo all’apparenza inconciliabili. Dall’impegno politico a quello accademico: ciò che ha accomunato il suo agire è stata una pacifica lotta contro ogni dogmatismo, fosse esso religioso, scientifico o sociale. Una lotta senza scontro quella di Vattimo espressa dal celebre concetto, condiviso con Eco e Rovatti, del «pensiero debole». Esso rappresentò la risposta intelligente ai totalitarismi filosofici: si schierò contro la neo-ontologia parmenidea di Severino, contro la metafisica teologica che faceva di Dio un essere assoluto e irraggiungibile, contro i vari scientismi positivisti che, messa da parte la religione, eleggevano la tecnica a nuovo idolo monocratico.
Insomma, schierandosi contro le verità opprimenti e annichilanti, Vattimo intese stare dalla parte dell’uomo, della sua dignità, della sua preminenza davanti a ogni tipo di conoscenza sentita come forte e vincolante. Il suo fu un tentativo di riconoscere nel mutato contesto culturale un nuovo modo di interpretare mondo: «l’esito della modernità» scrisse nella sua opera Il pensiero debole «è la dissoluzione della metafisica: cioè dell’idea che ci sia una struttura stabile dell’essere, un fondamento ultimo che la ragione coglie e su cui fonda la propria conoscenza oggettiva del mondo» e ciò, unito anche alla «scoperta della varietà delle culture, ha eroso in modo decisivo […] l’idea di una conoscenza definitivamente fondata».
Insomma non più i sistemi assoluti ed immutabili, non più una verità eterna e monolitica da cogliere e su cui basare ogni altro tipo di sapere: questo fu il cuore del pensiero di Vattimo. Egli mise da parte la violenza dell’Uno, la prepotenza di una verità che pretende di essere unica e universale, e lo fece a favore di una visione del mondo fatta di differenze, di verità relative e di opinioni legittime; si trattò certamente di un tentativo nobile, dall’apprezzabile risvolto morale: esso interpretò un tempo –quello nuovo della post-modernità– come un’epoca multiforme, fatta di differenze e di tolleranza. Si trattò tuttavia di una concezione non priva di criticità: se da una parte l’eliminazione del pensiero forte portò verso un’etica della convivenza, dall’altra essa ebbe come effetto secondario quello di indeboliretutto l’uomo, non solo il terreno su cui poggiava i piedi. Infatti l’uomo indebolito è un essere mite e pacifico, ma allo stesso tempo estremamente ambiguo e privo di certezze: la morte di Dio ha aperto alla fluidità dell’uomo, ma anche alla sua progressiva evaporazione. La stessa storia del mondo privata del suo fondamento perse, nel pensiero di Vattimo, ogni senso, ogni télos: il corso degli eventi, non avendo più una direzione, si trasformò in un caos di informazioni e piccole verità mai davvero interpretabili.
Eppure, al di là di ogni legittima critica da cui nessun buon filosofo può esimersi, non si può non riconoscere l’enorme successo che il pensiero di Vattimo ha riscontrato anche ben oltre i ristretti ambienti accademici; con lui termina una stagione filosofica fiorente, sicuramente una tra le più interessanti degli ultimi due secoli.
Articolo a cura di Gaetano Chiarolanza